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Giuseppe Conte, Pietro Senaldi: "L'imperativo categorico, liberarsi dell'avvocato"

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 Alla fine si scoprirà che il più onesto con Giuseppe Conte è stato Matteo Renzi. Il fiorentino ha detto chiaramente che non gli andava bene come il premier foggiano governava, dandogli così la possibilità di una via d'uscita da trattare. L'avesse ascoltato, ora l'avvocato di Volturara Appula non si troverebbe al bivio tra la disoccupazione politica e un ritorno a Palazzo Chigi che sarebbe solo l'inizio di una via crucis, per lui, vittima delle richieste dei mercenari che lo sosterrebbero, e per il Paese, condannato alla paralisi e all'eterna trattativa in un momento drammatico. Invece Conte ha preferito credere a M5S e Pd, che gli giuravano che era lui l'architrave della maggioranza, l'unico possibile punto d'incontro, il deus ex machina.

 

 

 

Per Giuseppe il confronto con la realtà è stato un amaro risveglio. La presa di coscienza è arrivata ieri sera quando su Facebook ha alzato bandiera bianca e ha ammesso: «Ci siamo impegnati ma abbiamo fatto degli errori e la cosa migliore è un governo di salvezza nazionale». Difficilmente con lui alla guida. Comunque andrà a finire, e sarà una crisi più lunga di quanto non si pensi, il foggiano si è sopravvalutato. Nel risiko della politica pensava di avere più armatine di cui disporre; invece sono molto meno del preventivato, e per di più nessuna è sua, per manovrarla deve chiedere il permesso. A parole, democratici e grillini lo hanno sostenuto. Formalmente, il loro comportamento è ineccepibile, se Conte si fosse sottoposto al giudizio del Parlamento, avrebbero votato per lui. Nei fatti però, né Di Maio né Crimi, né Zingaretti né Franceschini, hanno aiutato l'ormai ex premier a rimpinguare le proprie file. Il motivo è ovvio: l'uomo che presta la voce a Casalino è una minaccia per dem e cinquestelle. Se arrivasse a fine legislatura in sella, o i due partiti gli prolungano il contratto, oppure, qualora fondasse un partito tutto suo, li svuoterebbe.

 

 

Per questo, ora che con un duro lavorio di corridoio i giallorossi sono riusciti a convincerlo a dimettersi, faranno di tutto perché Conte non succeda a se stesso, anche se per convincerlo a mollare gli hanno promesso che andrà così e ufficialmente tengono ancora il punto. Giuseppe lo sa, per questo si è arroccato; ma si è dovuto arrendere all'evidenza dei numeri che non ha. Il foggiano ha fatto tre errori. Il primo è stato promettere più di quanto potesse dare. È così capitato che, per tirare responsabili dalla propria parte, l'uomo abbia offerto la stessa poltrona a più persone, illudendosi che non si parlassero tra loro.

L'ex premier ha confuso le trattative per allargare la maggioranza con una conferenza stampa sui suoi efferati dpcm. I parlamentari però sono più attenti e scafati degli italiani, e verificano le parole dei leader a stretto giro di posta. Il secondo è stato attaccare frontalmente Renzi, caricato come una molla dal suo portavoce Casalino, che detesta, ricambiato, il fiorentino, e dai sondaggi che danno il leader di Italia Viva in picchiata. Il Senato però non è il Paese e neppure il suo specchio. Conte ha venti volte il gradimento di Matteo, il quale ha solo 16-18 senatori, ma sono 16-18 in più di quanti non ne ha il foggiano.

L'unica speranza di Giuseppe di tornare al suo posto è far la pace con Matteo, ma questo impone un ritorno a Canossa oltre i limiti della dignità e, probabilmente, un prezzo alto da pagare anche in termini politici. Il terzo errore è stato attirarsi il disappunto del Quirinale con un comportamento istituzionalmente sgrammaticato. Mattarella, allergico a ogni minimo scossone in tempo di pandemia, era il più grande alleato del foggiano, che però lo ha irritato con atteggiamenti ondivaghi e piglio uterino.

La pazienza dell'uomo del Colle è tanta, ma è lecito dubitare quanto valga la pena spenderla, se finalizzata a sostenere un governo disunito, arraffone, senza programma e che non ha capo né coda, come si annuncia il Conte-ter. A complicare le cose, c'è l'inaspettata tenuta del centrodestra e di Forza Italia in particolare. Gli alleati andranno al Quirinale compatti, pronti al voto o anche a sostenere un governo di emergenza nazionale, purché non retto da Conte, che ormai fa parte dell'emergenza anziché rappresentarne la via d'uscita. La misera pesca di una settimana fa tra gli azzurri non si è arricchita in questa settimana. Segnale molto indicativo della credibilità di cui l'avvocato foggiano gode ormai nell'emiciclo.

 

 

La politica è marcia, e forse proprio per questo l'ex premier riuscirà a rientrare dalla finestra. Ma sarebbe un leader più che dimezzato, un portaordini di quattro o cinque generali in dissenso tra loro. Anche a sinistra ormai in tanti si chiedono che senso avrebbe continuare così. Liberarsi del foggiano è un imperativo trasversale (l'ha capito anche lui) tra le forze politiche e se la sinistra non fosse schiava dei sondaggi, che ancora danno Giuseppe alto nei gradimenti, già lo avrebbe fatto.

L'unico problema è l'alternativa: trovare un sostituto che vada bene a tutti i giallorossi. Ma il processo per far emergere il nome è molto lungo e nessuno vuol fare la prima mossa. Mancano i leader e il coraggio. In particolare dalle parti del Pd. È bastato che Conte minacciasse, «o me, o il voto», perché i dem ci cascassero ed esitassero nel pugnalarlo. Se la politica di casa nostra fosse una cosa seria, evocare le urne sarebbe stato il quarto errore di Giuseppe; siccome abbondano i dilettanti, si è rivelata l'unica scialuppa. Mattarella da oggi ascolterà tutti e alla fine sarà lui a dover togliere le castagne dal fuoco. 

 

 

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