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Mario Draghi convinca gli italiani a tornare al lavoro: ora basta con lo smart working

Mario Draghi

Iuri Maria Prado
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Nove mesi di cosiddetto smart working (è un altro modo di dire ferie) hanno regalato a un mucchio di italiani la meravigliosa sensazione di poter vivere per sempre secondo questa prassi, e cioè lavorando poco o nulla. Ad aiutarli in questa abitudine sfaccendata, e a far loro credere che a corrispettivo non ci sia un conto che qualcun altro deve pagare, è stato un verbo governativo popolarissimo nell'escludere anche la sola ipotesi che in tempo di crisi la parola d'ordine debba essere quest' altra: lavorare.

 

 

Lo slogan corrente e di supposta ragionevolezza («prima la salute»), diventava l'ambitissimo lasciapassare per la vasta Italia lazzarona, e serviva meno a proteggere dal virus che a garantire, ufficializzandola e legittimandola, l'irresistibile propensione di molti a starsene sul divano: che non è come stare al bar ma ci si accontenta.

A Mario Draghi si accredita, fondatamente, un'impostazione diversa, ma deve lavorare parecchio per trasformare in fatti le sue parole sugli investimenti al posto dei sussidi: ed è un lavoro molto poco popolare sia presso gli eserciti di parassiti che hanno fruito dell'abolizione della povertà tramite la riduzione in povertà degli altri, sia presso la polposa rappresentanza parlamentare che fa gli interessi di quella notevole parte del Paese.

 

 

Se i provvedimenti per il contrasto dell'epidemia sono stati accolti con diffusa noncuranza è perché hanno infierito su due cose abbastanza superflue e anzi fastidiose per parecchi connazionali: la libertà e appunto il lavoro. Sarebbe bello se gli addetti alla comunicazione del nuovo governo si impegnassero a trasmettere un messaggio opposto a quello finora lasciato correre: e cioè che il vaccino deve essere la fine della pacchia. 

 

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