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Coronavirus, Paolo Spada: "Il virus sta già arretrando. Ecco perché chiudere è un errore"

Pietro Senaldi
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«Le istituzioni e i media hanno seminato terrore. Ma picchiare solo sugli aspetti negativi è contrario a tutti i principi base di una terapia medica» «Per fortuna, i numeri ci dicono che stavolta la pandemia non ha la forza e le dimensioni di ottobre o del marzo scorso» Sono parole di Paolo Spada, chirurgo milanese in servizio presso l'Humanitas e, con il virologo Guido Silvestri, scienziato che da trent'anni lavora negli Stati Uniti, creatore della pagina Facebook "Pillole di ottimismo", resoconto quotidiano sull'andamento medico-sociale del Covid votato a non far precipitare i cittadini nel panico. «E questo si può fare con un'informazione trasparente e capillare, che analizzi i dati provincia per provincia e li spieghi, non con gli elenchi di morti e ricoverati senza contestualizzazione».

Professore, è passato un anno e torniamo a chiudere: qual è il motivo del suo ostinato ottimismo?
«L'ottimismo è alla base della medicina. Chi è ottimista è un combattente, quando va bene non si distrae e tiene accorte le persone, quando va male tiene duro e infonde coraggio. In un anno la scienza ha trovato i vaccini. Le pare poco? È un risultato straordinario».

Non si sente un po' solo?
«È vero, sono uno dei pochi che cantano fuori dal coro ma continuerò a farlo, anche se le cose dovessero peggiorare. Durante quest' anno le istituzioni, e purtroppo anche i mezzi d'informazione, hanno seminato terrore trascurando del tutto l'importanza di affrontare le difficoltà con un approccio empatico. Picchiare solo sugli aspetti negativi in realtà è contrario a tutti i principi base di una terapia medica. Non bisogna farsi travolgere dalle emozioni negative».

 

 

Quindi professore lei non chiuderebbe l'Italia come invece ha deciso il governo?
«L'avrei fatto prima, e non dappertutto. Chiudere tutto è la cosa più semplice; ma è anche la più grossolana».

I contagi però attualmente sono in salita e le chiusure, in teoria, li limitano
«Non c'è dubbio. Ma il discorso è più complesso. Si dice che bisogna imparare a convivere con il virus e poi non ci si prova nemmeno. Le restrizioni erano state fatte il 5 marzo, forse si poteva evitare di imprimere un ulteriore giro di vite dopo solo una settimana, prima cioè che sia valutabile il risultato delle misure contenitive prese».

Ma la terza ondata c'è o no?
«Certo che c'è, ed è fuori discussione che sia un fatto allarmante. Ma deve essere chiaro che è l'inizio dell'ondata che fa la differenza, la rapidità con la quale il contagio sale nei primi giorni. È lì che bisogna essere pronti. Quello che segue è in gran parte una conseguenza ritardata e inevitabile. Per fortuna, i numeri ci dicono che stavolta l'ondata non ha la forza e le dimensioni di quelle di ottobre o del marzo scorso. I contagi continuano a crescere ma abbiamo già superato da diversi giorni il flesso, che è il momento in cui il loro aumento inizia a rallentare. Questo significa che tra qualche giorno raggiungeremo il picco, ci assesteremo e poi torneremo a scendere. E tutto ciò è accaduto prima di entrare in zona rossa».

Non è che il rallentamento lo vede solo lei?
«No. In sette giorni siamo passati da un aumento dei contagi del 24% a una crescita del 14%. E la diffusione marginale sta iniziando a rallentare perfino in Emilia-Romagna, la regione attualmente più colpita».

A cosa imputa la frenata?
«La prima ondata ci ha colto dormienti, la seconda ci ha trovati svagati e superficiali, ma ora eravamo preparati: abbiamo tutti un livello maggiore di conoscenza del virus e di protezione collettiva, sappiamo meglio come difenderci e abbiamo una percezione del pericolo superiore rispetto a un anno fa, quando eravamo terrorizzati ma inconsapevoli dei meccanismi del contagio. E poi le epidemie lavorano sempre sul terreno della suscettibilità degli individui, che non è infinito: alcuni si sono già ammalati, altri appartengono a quel 30% della popolazione che ha di suo difese immunitarie in grado di tenere lontano il virus, altri ancora sono già stati vaccinati. Ogni ondata ha di fronte a sé un minore potenziale di vittime. L'immunità della popolazione verso la malattia sta aumentando gradualmente: al terzo giro, chi ancora non si è ammalato ha meno possibilità di contagiarsi rispetto alla prima ondata».

E allora perché siamo rientrati in lockdown: masochismo?
«Le dimensioni di questa ondata sono già definite abbastanza bene e si può prevedere uno svolgimento non catastrofico. Purtroppo il governo e gli scienziati che lo consigliano decidono in base al cosiddetto Rt, ossia l'indice di riproduzione, un valore che racconta una realtà vecchia di dieci giorni; ed è da 10 giorni appunto che la crescita sta calando».

 

 

Non si può sostituire l'Rt come indice calcolatore?
«In parte lo stanno già facendo, con l'introduzione del parametro dei 250 casi ogni centomila abitanti in una settimana per entrare in zona rossa, ma il punto è un altro: bisogna finirla di ragionare in termini di regioni, i dati vanno analizzati su base provinciale, o anche su realtà più piccole. Guardi il caso Lombardia, ci sono situazioni totalmente differenti: Brescia ha avuto per molte settimane livelli di contagio intollerabili ed era da chiudere, altre province, più occidentali, no».

Si finisce sempre a parlare di Lombardia
«Perché è la regione di gran lunga più popolosa. Ma insistere nel dire che è la realtà più colpita è una vergogna comunicativa: la Lombardia ha più contagi in numero assoluto ma non sempre in relazione agli abitanti».

C'è uno studio americano, pubblicato dalla rivista accademica Science Nature, che sostiene che le chiusure totali non servano
«Ho letto quello studio: è stato strumentalizzato in chiave negazionista. In realtà il messaggio forte dell'analisi è che il Covid è destinato verosimilmente nei prossimi anni a perdere virulenza e diventare una malattia endemica più lieve, come il raffreddore».

Quindi non ci libereremo mai del Covid?
«Continuerà a esistere ma sotto forma di una malattia meno importante, con un'immunizzazione naturale e acquisita per le forme più gravi».

C'è un altro studio, dell'università di Edimburgo, che sostiene che il lockdown sia controproducente perché poi, quando viene il momento di riaprire, il Paese si ritrova con una vasta percentuale di popolazione rimasta vulnerabile, cosa che non accadrebbe se il virus si facesse circolare...
«I tentativi all'inglese di sviluppare un'immunità di gregge sono falliti. È vero che la circolazione del virus crea immunità, ma è ancora presto per lasciarlo libero. Ci arriveremo».

 

 

Professore, da oggi mezza Italia è in zona rossa e l'altra metà è comunque semichiusa: cosa ne pensa?
«Senza entrare in polemica su quel che poteva essere fatto in termini di tracciamento, tamponi e misure preventive, penso che si potrebbe migliorare la strategia per fronteggiare il virus. Non sempre ha senso prendere provvedimenti validi per regioni con cinque o addirittura dieci milioni di abitanti. Bisogna avere come riferimento territori più piccoli e agire su di essi: le province, ma anche realtà minori, perché più restringi i territori, meglio li monitori e più accorci i tempi di clausura. Brescia è fuori controllo da un mese e ancora oggi è stata trattata come Milano e Pavia, dove la terza ondata è molto meno violenta».

Perché non si impara dagli errori?
«Perché c'è troppa lentezza negli indicatori e nella catena di comando. Se si rimpiccioliscono i territori si riesce anche meglio a sensibilizzare la popolazione e orientarla verso comportamenti virtuosi. Pensi al caso della prima zona rossa di Codogno o a quella di Medicina. I focolai oggi sono tanti, ma la curva del contagio è sempre la somma di piccole curve locali che possono essere seguite a più corto raggio, dobbiamo adeguarci noi alla realtà e non viceversa, perché il virus non fa quel che vogliamo».

Insomma, secondo lei stiamo chiudendo tutto in maniera un po' troppo grossolana?
«Spiace dirlo in questo modo, ma il lavoro avrebbe potuto e dovuto essere più raffinato. E poi ammettiamolo, non si può chiudere tutto: ha dei costi economici e sociali insostenibili. Con la nostra pagina Facebook, "Pillole di ottimismo" sono in contatto ogni giorno con migliaia di persone e le assicuro che l'allarme sociale è alto».

A proposito di ottimismo, mi dica una cosa positiva
«In estate ne saremo fuori in gran parte e, grazie ai vaccini, il prossimo ottobre non sarà l'anticamera dell'inferno come lo è stato quello scorso. Dovremo usare ancora le mascherine nei luoghi pubblici, ma il futuro è dalla nostra parte, anche per la tendenza del virus a mutare».

Ma come, le varianti non sono una maledizione?
«Guardi che il Covid continua a variare fin dall'inizio. Quello che si è sviluppato in Italia, a Codogno, non è uguale al virus che ha colpito Wuhan, dove tutto ha avuto origine. Anche l'influenza varia di continuo e probabilmente il Covid è destinato a diventare simile a un'influenza, anzi forse addirittura a un semplice raffreddore».

 

 

Ma quanti morti ci vorranno nel frattempo?
«Se ci vacciniamo tutti, sempre meno».

Non la fa troppo facile?
«Da medico ho il dovere di essere vicino alle persone angosciate e trasmettere empatia a chi non riesce più a dormire di notte per le preoccupazioni. Penso che dovrebbero usarne un poco anche la stampa e le istituzioni, mitigando un approccio spinto troppo verso la drammatizzazione, che alla fine va a braccetto con la disinformazione».

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