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Luigi Di Maio, che lingua parla con gli Usa? La non irresistibile ascesa del ministro grillino

Luigi Di Maio

Azzurra Barbuto
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La sua priorità è la tutela dell'ambiente, non ha una passione smodata per lo studio e viaggia in tutto il mondo per lavoro. No, non si tratta dell'attivista del clima Greta Thunberg, bensì del nostro ministro degli Esteri, succeduto a se stesso, Luigi Di Maio. Trentaquattro anni e già quattro ministeri sulle spalle in tre differenti governi di una stessa legislatura (siamo in Italia, del resto, dove gli esecutivi durano tanto quanto un gatto sulla tangenziale). Nato ad Avellino, cresciuto a Pomigliano d'Arco, in provincia di Napoli, dove nel 2004 consegue la maturità classica (e lì si ferma), l'inaffondabile ministro Di Maio, l'unico in grado di rimanere in piedi nel passaggio dal governo gialloverde a quello giallorosso e da quest' ultimo a quello guidato da Draghi (con tutti dentro appassionatamente), quasi quotidianamente, in qualità di capo della Farnesina, incontra illustri uomini di Stato con i quali si confronta risultando addirittura a suo agio, almeno in apparenza. Il che suscita insieme stupore e sgomento. Ignoriamo infatti di cosa diavolo parlino e il dubbio che in occasione di questi meeting vengano scattate soltanto fotografie da dare in pasto al pubblico è grande oltre che legittimo, dal momento che Luigi non è un brillante oratore neppure quando - sforzandosi - adopera l'italiano, manifestando gravi difficoltà nonché un conflitto mai risolto con la sintassi, in particolare con la coniugazione dei verbi, figuriamoci allorché si trova davanti un soggetto che ricorre ad un'altra lingua. Come è avvenuto due giorni fa, quando Luigi ha incontrato il segretario di Stato degli Stati Uniti Antony Blinken, un tizio che ha un curriculum dorato e lungo da qui allo stretto di Gibilterra, tra formazione ed esperienze. Gli USA, insomma, si presentano con Antony Blinken e noi sfoderiamo Gigino Di Maio.

 

 

 

Tempo fa Di Maio, invidiato dai suoi colleghi di partito per la sua straordinaria capacità di accumulare (o collezionare) cariche e incarichi, un po' come l'ex commissario Arcuri, è finito al centro di una polemica interna al Movimento, risolta rimuovendo Gigi dal ruolo di capo politico del M5s, che ricopriva dal settembre del 2017. Per fortuna, non ha vinto l'ala del partito che avrebbe voluto metterlo al rogo. Che Di Maio abbia un curriculum non all'altezza delle sue responsabilità - ammettiamolo - è divenuto oramai un ingiusto luogo comune da sfatare. E tanto vale farlo subito. Il ragazzo il curriculum se lo è fatto in questi anni. È stato altresì vice presidente della Camera e, quando era alla guida del dicastero del Lavoro e delle Politiche sociali, era pure vice-premier nonché ministro dello Sviluppo economico. Mica pizza e fichi. L'avellinese bazzica i palazzi istituzionali dal 2013 e, essendo stato eletto in un partito nuovo il quale per di più godeva di ampi consensi (quasi del tutto persi irreversibilmente, anche grazie a Di Maio medesimo) ha trovato porte spalancate ovunque, strada spianata, nessun ostacolo, neppure l'ombra della necessità di fare la gavetta prima di occupare certi scranni. Chiamasi "democrazia", per i suoi "pro" accettiamo di buon grado i suoi "contro", tra i cui "contro" vi è appunto "Gigino ministro del Lavoro", proprio lui che mai ha lavorato prima che entrasse in politica o, per meglio dire, prima che la politica entrasse in lui, impossessandosene come un demonio si impadronisce di un corpo. Per scollare Di Maio dalla poltrona ci vorrebbe l'esorcista. Ed ecco il punto: di esserci il curriculum adesso c'è, Gigino ne è munito, ma come diamine abbiamo potuto piazzare al vertice di cruciali ministeri un soggetto senza arte né parte, senza competenze, senza preparazione, senza titoli, senza meriti (se non quello di essere votato, se di merito si può parlare), senza esperienza, se non quella di steward allo stadio San Paolo, o di cameriere, o di manovale presso la piccola ditta del babbo, un personaggio, come se non bastasse, scolorito, anonimo, ingessato, stucchevole, imbarazzante in certe sparate ed uscite, candidato in un partito fondato da un bizzarro comico ritenuto dagli italiani alla stregua di eroe, è e rimarrà per sempre un mistero. I risultati si sono visti. Cioè, per meglio dire, non si sono visti, quelli sperati ed attesi almeno, eppure Di Maio si proclamava sicuro di avere persino "abolito la povertà" (sic!). Come? Per decreto. Un dio.

 

 

 

Ma non ponetegli domande di geografia, abbiamo compreso da anni che questa materia non è il suo forte, proprio come tutte le altre. E qual è il colmo per un ministro degli Esteri? Credere che Matera sia in Puglia, o che la Russia sia un Paese mediterraneo. Però anche regalare alla Tunisia milioni di euro perché non ci invii migranti e ritrovarsi i porti invasi di clandestini. O chiamare "Ping" il presidente cinese Xi Jinping, il tutto in mondo visione. O donare le mascherine alla Cina quando siamo alle prese con una epidemia e le mascherine scarseggiano. Questo ragazzo, che gli italiani - delusi - avrebbero voluto spedire all'estero (ma qualcuno avrà capito "Esteri"), farà strada. Verso dove non si sa. Però noi una mezza idea ce l'abbiamo.

 

 

 

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