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Vittorio Feltri e l'incontro con la studentessa di Pechino: "Quando ho capito che noi occidentali avremmo perso"

Vittorio Feltri

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Quasi tutti gli italiani sono sull'orlo di una crisi di nervi, non ne possono più di divieti di vario genere che impediscono loro di lavorare, quindi di vivere. Da oltre un anno ricevono dal governo ordini perentori che proibiscono loro di uscire di casa, di bere un caffè o un aperitivo al bar, di frequentare ristoranti e perfino di passeggiare all'aperto dove, è assodato, il virus non colpisce. Martedì in varie città è esplosa la protesta delle folle, e siamo soltanto all'inizio. O il governo si decide a sciogliere le catene che ci inibiscono di campare oppure tra qualche giorno nel Paese monterà la rabbia, la quale si sa come comincia e non come può finire, di norma male.

 

Non nutriamo un sentimento negativo nei confronti di Mario Draghi, tuttavia speriamo non sia lui a provarlo per noi sudditi ormai di una sorta di dittatura volgare. Segnaliamo ai nostri politici negligenti e impertinenti che in altre Nazioni pure infestate dal virus la libertà dei cittadini rimane sacra. Per esempio, il Giappone se ne guarda dall'impartire comandi ai signori e alle signore, non rientra nel suo stile educato e rispettoso: si limita a consigliare alcuni atteggiamenti prudenziali, e, poiché si tratta di una civiltà ordinata e disciplinata, nessuno osa trasgredire regole fondamentali a difesa della salute pubblica. D'altronde i giapponesi ci impartiscono lezioni di igiene e pulizia, le strade sono linde, le toilette sono specchiate, altro che Roma dominata dalla monnezza più lurida e respingente.

Il nostro non è un attacco a Virginia Raggi, la quale - poveraccia - ha ereditato una schifezza e non poteva trasformarla in un gioiello. Nei centri abitati nipponici i negozi sono aperti, i bar pure, così come i ristoranti che sono inagibili dopo le 21. Quanto ai teatri, sia chiaro, sono accessibili al pubblico che assiste senza limitazioni ai grandi concerti, quelli di Riccardo Muti, per citarne alcuni. Insomma, dobbiamo imparare dagli orientali ad amministrare anche la cultura, che per loro è sacra, non se ne può fare a meno per esistere civilmente. Sottolineo inoltre che non c'è solamente il paradiso di Tokyo da imitare con urgenza, esiste la Corea che sforna artisti senza sosta, per non parlare della Cina su cui sputiamo critiche senza conoscerla. E pensare che da anni ormai questi Paesi sono al vertice del mondo in materia economica e intellettuale. Un ricordo personale molto significativo.

 

Nel 1992 dirigevo l'Indipendente quotidiano. Il vignettista celebre Giorgio Forattini mi pregò di ricevere una studentessa di Pechino che frequentava l'Università di Bologna ed era bisognosa di guadagnare qualche soldo per mantenersi agli studi. Ero più che perplesso. Mi domandavo che mansioni avrei potuto affidare nel giornale a una ragazza pechinese di cui ero sicuro che conoscesse approssimativamente la lingua italiana. Però non volli mortificarla e le chiesi di scrivere un pezzo sulla scuola dell'obbligo della sua patria. La signorina si chiuse nella stanza dei collaboratori e dopo qualche ora, forse meno, si appalesò con due cartelle e mezzo scritte fittamente.

Incuriosito le lessi e scoprii ammirato che, a parte qualche consonante non raddoppiata, l'elaborato era perfetto. Trasecolai. E pubblicai tutto. Fu lì che capii che noi occidentali avremmo perso la partita con gli orientali. Non mi sbagliavo. È trascorso da allora quasi un trentennio e le distanze tra l'Italia e la Cina sono aumentate. Mio figlio Mattia ha due ragazzini che frequentano uno le medie e l'altra il ginnasio, i quali affermano di avere un paio di compagni con gli occhi a mandorla e sono i primi della classe. Addio.

 

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