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Magistratura, il vizio di fare politica delle toghe comincia con Tangentopoli: ecco la vera storia

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Francesco Carella
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Il recente rinvio a giudizio dell'ex ministro dell'Interno con l'accusa di sequestro di persone in relazione alla vicenda della nave Open Arms di fatto trasforma una legittima decisione di governo in un reato penale. Vi è poco da stupirsi. Si tratta solo dell'ultimo capitolo di un conflitto fra la giurisdizione e la politica aperto da decenni e che rischia di lesionare in profondità le istituzioni liberaldemocratiche del nostro Paese.

Per capirne di più, occorre partire dalla stagione della "grande slavina", quando a mezzo di un'incessante azione della magistratura in poco più di un anno, tra il '92 e il '94, finiscono sotto inchiesta, per violazione delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti, 385 deputati e 155 senatori dell'allora maggioranza di governo. In quei mesi, in Italia accade qualcosa di unico e che non trova riscontro in alcun Paese democratico, ovvero si realizza, in seguito alle inchieste di un gruppo di magistrati inquirenti, una radicale e violenta alterazione della rappresentanza politica con l'eliminazione dalla scena pubblica di tutti i partiti che avevano contribuito alla stesura della Costituzione e alla realizzazione del miracolo italiano in forza del quale il Paese passò in pochi decenni dalle macerie del Secondo conflitto mondiale a un ruolo di primo piano fra le maggiori potenze industriali dell'Occidente.

 

 

 

A partire da quel biennio nulla sarà più come prima. Lo svolgimento della vita politica nella sua articolazione classica scandita da "elezioni - formazione di una maggioranza - sovranità della decisione politica" verrà condizionato pesantemente nei tempi e nei modi dagli interventi delle Procure. Eppure, vi fu chi nella tempesta di quei mesi intuì che la crisi in cui versava il Paese fosse di carattere sistemico e che, come tale, richiedesse una soluzione parlamentare in luogo di quella giudiziaria. Ciò non fu possibile, principalmente a causa dell'opposizione degli eredi del Pci.

Si preferì cavalcare l'onda giustizialista, consentendo un'abnorme dilatazione delle funzioni giurisdizionali, convinti di poterne trarre benefici elettorali e non solo. Del resto, timori per finanziamenti illeciti e fenomeni corruttivi ve ne erano molti nel Partito comunista e non solo per l'ingente flusso di denaro proveniente dall'Urss. Lo storico Guido Crainz in Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni '80, documenta che già nel marzo '74, nel corso di una direzione, il responsabile del bilancio, Guido Cappelloni, dice di essere «molto preoccupato sulla capillarità della corruzione che coinvolge anche il nostro partito». In quell'occasione così si espresse Armando Cossutta: «C'è un inquinamento nel rapporto con le amministrazioni pubbliche nel quale c'è di mezzo l'organizzazione del partito e poi ci sono dei singoli che fanno anche il loro interesse».

 

 

 

 

Preoccupazioni che vengono risolte in parte con la legge di amnistia del 1989 e in parte scegliendo di agevolare lo sviluppo di ciò che Tate e Valinder chiamano «giudiziarizzazione della politica», ossia «lo spostamento delle competenze decisionali dal legislativo e dall'esecutivo verso i tribunali». Questo, per sommi capi, il contesto storico-politico in cui maturarono i due grandi fenomeni che ancora oggi condizionano la vita pubblica del Paese: la «politicizzazione della magistratura» - con l'inevitabile «perdita di quell'immagine di neutralità senza la quale non può esservi fiducia nella giustizia» - e la strumentalizzazione delle inchieste da parte della sinistra, al fine di eliminare quegli avversari che sul terreno politico non si è in grado di sconfiggere. È accaduto con il leader socialista Bettino Craxi e poi con Silvio Berlusconi, mentre ora si cerca di ripetere l'operazione nei confronti di Matteo Salvini. L'Italia scivola, in tal modo, verso una «democrazia giudiziaria». Uscirne sarà impresa difficile.

 

 

 

 

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