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Claudio Durigon, il sottosegretario leghista sotto accusa per non avere commesso reati

Alessandro Giuli
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Dunque i manettari giallorossi vogliono appendere Claudio Durigon per i piedi, impiccarlo a testa in giù e vilipendere il suo cadavere politico, dopo aver visto e rivisto una spettacolare videoinchiesta nella quale emergerebbe a suo carico il corpo del reato. Il fatto è che un corpo c'è, ed è enorme, panciuto e compiaciuto, ma il reato anche no.

La vicenda si può riassumere in poche battute: quei formidabili segugi di Fanpage.it hanno scavato con dovizia nel sistema di potere dell'attuale sottosegretario leghista all'Economia; ne hanno ricostruito i fili più o meno recenti e li hanno fatti dipanare nel racconto dei suoi avversari nell'Ugl, lo storico sindacato post missino che lui come ex vicesegretario ha portato in dote a Matteo Salvini nelle elezioni del 2018. Infine, con telecamera abilmente nascosta, nel filmato in questione si mostra Durigon che promette alcune nomine in Puglia alla vigilia delle regionali poi perdute dal centrodestra e - così si giunge alla presunta pistola fumante - sentenzia che sono «tutte cazzate» le indagini sui commercialisti che avrebbero fatto sparire i famigerati 49 milioni del Carroccio frutto di una presunta frode. Nel sapiente montaggio di Fanpage compare tuttavia, badate bene, una frasaccia di Durigon che suona come la sbruffonata fatale - «quello che fa le indagini... il generale... lo abbiamo messo noi» - accompagnata da un invito al silenzio con tanto di manata sulla spalla dell'interlocutore. Decisamente poco per sostenere la tesi di un'autodenuncia involontaria, quanto basta invece per alzare la gazzarra degli alleati di governo grillini coi loro sinistri sbirri di complemento che ora - malgrado il silenzio del Partito democratico - pretendono le dimissioni del sottosegretario e molte spiegazioni sui legami retrospettivi tra il Carroccio e l'Ugl.

 

 

 

Ma di che parliamo, quando parliamo del caso Durigon? Della repentina ascesa di un cinquantenne sindacalista di Latina disceso da braccianti veneti calati da nord per bonificare l'Agro Pontino durante il fascismo, diplomato ragioniere e transitato come operaio in un'industria farmaceutica. Insomma il fenotipo perfetto del fasciocomunista rappresentato da Antonio Pennacchi nei suoi romanzi, un uomo più in confidenza con gli assembramenti in piazza che con la consecutio temporum e le terrazze del potere vero, quello che sa nascondersi per perpetuarsi meglio. Ma come lo tieni nascosto uno come Durigon, che pesa un quintale e ha scritto Quota cento al ministero del Lavoro nel primo governo Conte dopo essersi fatto eleggere alla Camera dei Deputati? E soprattutto: come si diventa Claudio Durigon, se non ispirandosi alle inveterate carriere politiche dei suoi predecessori di sinistra? Basta citofonare alla Cgil di Sergio Cofferati e Fausto Bertinotti o Guglielmo Epifani, oppure alla Cisl del compianto Franco Marini e Savino Pezzotta o Sergio D’Antoni. Perché la storia italiana è piena di signori delle tessere sindacali che, in piena legittimità, hanno trasformato le cosiddette cinghie di trasmissione sociale con i partiti nelle porte girevoli per entrare a Palazzo. Dice: vabbè ma le tessere dell’Ugl erano gonfiate (solo quelle dell’Ugl, siete così sicuri?) e poi Durigon s’è fatto prestare le stanze del sindacato e, una volta divenuto importante, s’è messo perfino a promettere posti di sottopotere regionale. Ma guarda un po’: un sindacato che fa da ostello e da massa critica per tirare la volata a uno dei suoi, aspirante dirigente politico, e quel dirigente che poi si mette anche a fare, anzi vagheggiare alcune nomine! Cioè, in pratica,il ritratto del Novecento italiano ma in questo caso senza cachemire e pipe di radica,erremoscia e primi maggio in piazza San Giovanni appuntati sul petto.

Poiché in Durigon si percepisce piuttosto l’umidità della palude pontina,il sudore della periferia littoria, l’eloquio del bracciante al Dopolavoro; e forse, per vie assai indirette e tutte semmai da certificare, l’ombra vischiosa dei locali malacarne zingari (quando sono mezzi fasci si può non dire rom, giusto?) nella veste degli attacchini di manifesti o poco più; oltre naturalmente alle numerose comparsate televisive dell’uomo da cento chili che sa parlare al popolino e garantisce ottimi ascolti e introiti pubblicitari a chi lo invita… Come se poi la politica non fosse “sangue e merda” (citazione facile da Rino Formica) con sempre troppe cene elettorali nel sangue e troppa merda da spalare per allocare questo o quel beneficando. Altra grande scoperta che non lo è, in effetti, se non quando le figure istituzionali chiamate ad amministrare la macchina del consenso provengono da destra.

 

 

Dice: vabbè ma quella frase sui soldi fantasma della Lega come la spieghi? Quale delle due? Il Durigon che sussurra «tutte cazzate», senza sapere d’essere filmato, laddove un pm doveva augurarsi che ammettesse «per noi sono cazzi amari»? Oppure il Durigon mentre allude al fatto che un governo con dentro la Lega avrebbe nominato un ufficiale della Guardia di Finanza finito poi a indagare sulla Lega? (Che poi se volessimo davvero compilare l’inventario dei generali “adottati” dai partiti nell’ultimo secolo…). Non esattamente il massimo, diciamo, per istruire un processo sommario, a meno di voler contrabbandare il galateo per il codice penale. Ma a quel punto scatterebbero le retate e si svuoterebbe il Parlamento. Altroche dimissioni dal governo Draghi.

 

 

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