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Primo maggio e 25 aprile, in comune la retorica di una democrazia ipocrita e sfaticata

Iuri Maria Prado
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È un Paese dove in pochi lavorano quello che celebra la festa del primo maggio, e sono perlopiù pensionati ed eserciti di illicenziabili quelli che ingrossano i cortei della Repubblica fondata sul lavoro degli altri. È un Paese poco libero quello che festeggia la liberazione che non si è guadagnato, e sono soprattutto rappresentanze illiberali a riempire la scena non sempre inoffensiva del 25 aprile imbandierato di rosso. Vladimir Luxuria (55 anni) sulla copertina del nuovo singolo "King Kong" In quei due stracchi anniversari sfila tutta l'inaderenza italiana e si manifesta l'esplosiva inadeguatezza della cultura che ha acquisito in esclusiva monopolistica il patrocinio di quelle due identiche retoriche: il diritto al lavoro propugnato da chi lavora poco o nulla non perché non lo trova, ma perché vive abbastanza bene nel sistema che lo assolve dall'obbligo di lavorare; e la liberazione rivendicata rimuovendone la verità indicibile, vale a dire che essa non si è imposta con la rassegna di cadaveri appesi in Piazzale Loreto ma grazie ai nemici delle dittature e dunque dell'Italia, gli americani e gli inglesi sepolti nei cimiteri che la nostra cara democrazia si dimentica ogni anno di onorare. Classi dirigenti intellettualmente pigre e profondamente disoneste continuano a raccontare la storia di un Paese ormai incapace di riconoscersi pienamente nei pochi simboli fondativi che altrove chiamano alle celebrazioni piazze meno sparute e più genuinamente strette in spirito comunitario: ma non spiegano che la specie di inattuale reducismo cui si riducono tristemente le ricorrenze democratiche italiane denuncia soltanto la percezione di falsità che ne ha una nazione intera, che non vi si riconosce non perché non ne comprende il valore ma perché ne avverte il carattere contraffattorio. Il virgulto percettore di pensione che strilla tra ali di sindacalisti il suo strazio per il lavoro che manca è il segno esemplare di un andazzo irrecuperabile, l'altra faccia del welfare finanziato dai dieci milioni di italiani che lavorano per mantenerne sessanta. L'incanutito cantore dell'epopea partigiana che vagheggia di eroismi sulle montagne trascura i filari di incarichi universitari e di vitalizi goduti per merito antifascista da quelli che scrivevano le bellezze del regime a difesa della razza, e pace se dalla marcia in ricordo della liberazione si libera puntualmente la sassaiola contro la Brigata ebraica. Il bouquet delle nostre feste repubblicane è questa roba qui, un mazzo di bugie impugnato dall'ufficialità di una democrazia ipocrita e sfaticata. 

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