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Coronavirus, lo studio che rivela che le mascherine inquinano come la plastica

Andrea Scaglia
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Pericolo: le mascherine inquinano come la plastica e si rischia letteralmente che i mari addirittura ne soffochino. I mari e quindi noi tutti, visto che nell'ecosistema tutto è collegato. Tanto che gli scienziati stanno studiando il fenomeno, così da quantificarlo e sensibilizzare sulla questione. E attenzione, qui non si tratta di accodarsi a coloro che berciano sul fatto che queste protezioni anti-contagio non servano a nulla e siano invece uno strumento di controllo sociale e magari provochino pure dei brutti mali e altri deliri del genere. Certo sostenere che siano comode ed eleganti no, non è possibile - non ne possiamo più, questa è la verità - ma da un anno e oltre abbiamo fatto di necessità virtù.

D'altro canto, sentite questo numero: da quando il mondo intero respira filtrato a causa dello stramaledetto virus, ne sono state prodotte oltre 50 miliardi. Cinquanta-miliardi-di-mascherine-usa-e-getta. E quel che si getta diviene inevitabilmente fonte d'inquinamento. Agli angoli delle strade, fra i cespugli di parchi e giardini, lungo i sentieri di montagna e nelle spiagge: se ne trovano ovunque, buttate maleducatamente (soprattutto) o perdute inavvertitamente (meno). In questo senso, proprio le maschere chirurgiche si sono già trasformate in una nuova minaccia per l'ambiente.

Perché, anticipando uno dei dati più impressionanti, una singola mascherina gettata irresponsabilmente, al termine del suo pressoché inevitabile tragitto dal marciapiede al mare (qualora non sia raccolta e indirizzata all'impianto di smaltimento), può rilasciare fino a 173mila microfibre al giorno - numero che detto così a noi profani dice poco, invece è tanto. Risultato, questo, emerso da un'importante ricerca condotta da un team di chimici del dipartimento di Scienze dell'Ambiente e della Terra dell'Università di Milano-Bicocca - autori Francesco Saliu, Maurizio Veronelli, Clarissa Raguso, Davide Barana, Paolo Galli e Marina Lasagni - e pubblicata sulla rivista "Environmental Advances".

 

 

 

Vediamo di capirne di più. Lo studio ha approfondito sperimentalmente il meccanismo di degradazione foto-ossidativa - cioè il deterioramento dovuto in sostanza alla luce solare e alla temperatura - delle fibre di polipropilene presenti nei tre strati delle mascherine chirurgiche.

In particolare, sette mascherine - di quelle acquistabili in supermercati, farmacie e su piattaforme online - sono state sottoposte a esperimenti di invecchiamento artificiale, in modo da simulare quel che avviene nell'ambiente, e anche confrontate con le modificazioni avvenute in altre cinque maschere usate, prelevate da una spiaggia italiana, in Sardegna. Le prime mascherine sono state esposte a raggi UV - quelli della luce solare - per diversi cicli e per un totale di 180 ore, e poi immerse in acqua marina sotto agitazione per altre 24 ore, in modo da simulare l'effetto atmosferico combinato dell'irraggiamento solare e la sollecitazione meccanica dovuta alle onde del mare.

Al termine del trattamento, l'acqua di mare artificiale è stata infine setacciata e analizzata, così da verificare la degradazione chimica provocata dagli agenti atmosferici e le sostanze rilasciate dalle mascherine in questione. Risultato: gli esperimenti hanno mostrato che una singola maschera chirurgica esposta agli agenti atmosferici può degradare gravemente e rilasciare enormi quantità di microfibre plastiche nell'acqua di mare - «il propilene, cioè il polimero sintetico di cui sono composte le mascherine - ci spiega il professor Francesco Saliu, uno degli autori dello studio - rientra nella definizione di materiale plastico». Plastica, per l'appunto. Più precisamente, una media di 135mila particelle rilasciate per maschera, e fino a 173mila. D'altra parte, risultati simili sono emersi anche dalle analisi delle mascherine reperite direttamente in spiaggia, a conferma che il procedimento utilizzato ha fornito una descrizione attendibile di ciò che accade realmente all'aperto, in seguito a una prolungata esposizione alla luce solare.

 

 

 

 

Ma quindi la ricerca accerta i veleni rilasciati dalle mascherine più che altro nel mare: il discorso vale anche per la terra, per le città, per l'ambiente nel suo complesso? Il professor Saliu quasi ci bacchetta: «Questa domanda contiene un corso di laurea in scienze ambientali in pillole - spiega -. I nostri studenti imparano fin da subito a pensare l'ambiente come un grande sistema interconesso.

Dalla letteratura scientifica sappiamo che la plastica che troviamo in mare è in gran parte quella delle grandi città, anche se il contributo puntuale costiero e quello veicolato dai grandi fiumi è oggetto di dibattito. Alle grandi città ci ritorna in forma di microplastiche, anche per trasporto atmosferico, come dimostrano recenti studi riguardanti lo spray marino».

Come abbiamo scritto prima: le mascherine che vengono gettate per strada - o anche direttamente nei servizi igienici, malcostume più diffuso di quanto si pensi - prima o poi arrivano al mare, attraverso fogne e poi fiumi e quant' altro, e viceversa tornano indietro in altra forma. Gli effetti di queste microfibre sugli organismi marini sono ancora da determinare con precisione: certo non fanno bene.

Peraltro, il team dell'Università Milano-Bicocca precisa nel documento che «è plausibile che una maschera scaricata in spiaggia possa degradarsi completamente in frammenti di fibre microscopiche e aggregati plastici in meno di due anni». Quantificando il fenomeno - naturalmente si tratta di una stima - il numero che ne deriva è impressionante: vista la produzione globale di mascherine protettive - che, l'abbiamo detto, può arrivare ad oltre 50 miliardi di pezzi, corrispondenti fino a 312.000 tonnellate, e stimando che fra l'1 e il 10% possa essere rilasciato nell'ambiente, « questo rappresenta potenzialmente da 72 a 31.200 tonnellate di rifiuti microplastici che si sommano agli altri già presenti nei nostri oceani». Tutta roba da togliere il respiro.

 

 

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