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Missili sulla Striscia di Gaza, Roberto Formigoni: contrasti e interessi, cosa nasconde questa guerra

Roberto Formigoni
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Il conflitto tra israeliani e palestinesi riesploso lunedì è l'ennesimo episodio di una contrapposizione le cui radici risalgono alla fine del diciannovesimo secolo. «Chi ha ragione e chi ha torto?», si domanda lo spettatore occidentale, colpito dal fragore delle armi e dal numero delle vittime ma frettoloso di rivolgere ad altro la sua attenzione. Forse non è la domanda più giusta, o meglio occorre approfondire per capire veramente. Due premesse sono però inoppugnabili. Primo, Israele è l'unico Paese democratico dell'intera zona, e il suo diritto a vivere in pace dentro confini sicuri non può essere messo in discussione, ed è anzi riconosciuto da tutti i documenti e i trattati internazionali. 

 

Secondo, i palestinesi non hanno mai potuto decidere da sé il proprio destino, sono stati sempre governati da oligarchie o dittature, e l'Unione europea, senza distinzioni tra destra e sinistra, considera organizzazioni terroristiche entrambi i gruppi islamici che si contendono oggi il potere sulla popolazione palestinese. Detto questo, veniamo ad oggi. La potenza di fuoco messa in campo è senza precedenti. In particolare è una grossa novità la pioggia di razzi lanciati da Gaza, cioè dai gruppi di Hamas, su Gerusalemme e Tel Aviv: centinaia di missili al giorno, con una gittata di oltre cento chilometri, capaci di raggiungere le abitazioni di quelle città, con grande potenza distruttiva. Mai prima d'ora, salvo per qualche sporadico episodio durante la guerra del Golfo del '91, Tel Aviv era stata attaccata, e mai era stata attaccata Gerusalemme, città santa delle tre religioni monoteiste, dunque anche dell'Islam. È la prima volta che la guerra tocca Gerusalemme, l'attacco viene da Hamas, e la reazione israeliana è già iniziata con i raid aerei su Gaza. 

UNA NUOVA FASE
La domanda che gli osservatori internazionali si pongono è sempre la stessa in questi casi: si tratta dell'inizio di un'altra grande rivolta come ce ne sono state in questi decenni, oppure dello scoppio di una vera e propria guerra, destinata ad allargarsi e a protrarsi a lungo, o piuttosto serve ai capi delle varie fazioni palestinesi per cambiare il peso del potere di ciascuna sull'altra? O infine serve per attirare l'attenzione del mondo occidentale, e dello stesso mondo arabo, che della "questione palestinese" paiono non interessarsi più? Infatti le ostilità sono iniziate sulla base del minacciato sfratto di quattro famiglie palestinesi da Gerusalemme est e delle celebrazioni israeliane per l'unificazione della città nella Guerra dei sei giorni. Dietro la rivolta che ne è nata si intravede una mossa calcolata per rilanciare la diplomazia, come suggeriscono il quotidiano israeliano Haaretz e numerosi commentatori arabi. 

 

LE LOTTE INTERNE
Secondo costoro, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen avrebbe incoraggiato la guerriglia nei vicoli della Gerusalemme vecchia per attirare l'attenzione del nuovo presidente Usa Joe Biden, per spingerlo a riprendere i negoziati di pace sospesi da Barack Obama e definitivamente abbandonati da Donald Trump. Non solo, ma i disordini a Gerusalemme avrebbero fatto molto comodo ad Abu Mazen per giustificare la decisione di rinviare le elezioni promesse nel 2005 e che non si sono mai tenute perché Abu Mazen teme di perderle. Ma Hamas, il gruppo fondamentalista che dal 2006 è chiuso nella Striscia di Gaza che governa con mano ferrea ma senza la possibilità di allargare il suo potere, ha preso la palla al balzo e ha infilato in contropiede le manovre di Abu Mazen. Ha dimostrato di avere un armamentario di tutto rispetto e missili moderni (forniti dalla Turchia? dall'Iran?) e ha tolto l'iniziativa all'Autorità nazionale palestinese. Ora il confronto non è più tra Abu Mazen e Netanyahu, ma tra questi e Hamas. 

E il futuro è diventato più incerto. Sullo sfondo, come sempre in questa sfortunata terra mediorientale, si muovono varie forze e vari interessi: l'Iran che appoggia la Jihad palestinese, la Turchia che sostiene Hamas nella prospettiva di un nuovo sultanato, mentre Emirati Arabi, Arabia Saudita ed Egitto, assieme agli altri Paesi che hanno firmato con Israele gli Accordi di Abramo, sono ormai interessati a concludere affari più che a una nuova guerra. E le vittime civili, numerose da entrambe le parti, rischiano di non interessare a nessuno.

 

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