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Marco Travaglio, l'ultimo amore finito malissimo: il dramma del direttore, tutta colpa di Conte e Arcuri

Alessandro Giuli
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Marco Travaglio è la vedova inconsolabile dei casi umani della Repubblica.Dall’ex premier Giuseppe Conte all’ex super commissario Domenico Arcuri, e così via a risalir li rami fino ad Antonio Ingroia e Tonino Di Pietro, l’albo d’oro politico custodito dal direttore del Fatto è un camposanto d'amori sfortunati, un inventario di carriere stroncate dalla malasorte e dalla malagrazia giustizialista nel sostenerle. L'ultimo e ferale colpo gliel'ha inferto ieri il capo dello Stato, nell'anniversario della strage di Capaci, azzannando alla giugulare quell'idra impazzita che è divenuta la magistratura, un pozzo nero in cui «contrapposizioni, contese, divisioni e polemiche minano il prestigio e l'autorevolezza dell'ordine giudiziario».

Così ha detto Sergio Mattarella nell'aula bunker di Palermo, il santuario laico di chi col teorema della trattativa Stato-mafia ha sancito la beatificazione dei togati e nutrito l'anatema antipolitico. Ma basta sfogliare le prime pagine del Fatto quotidiano per cogliere un generico dolore ormai trattenuto a stento e riversato ogni giorno in bile nera per dimostrare che si stava meglio durante il principato cinese di Conte; e ad armeggiare per la salute nazionale c'era l'amico Arcuri con i suoi vaccini fantasma e le sue primule, le mascherine e i respiratori pechinesi. Sembra passato già un evo, ora che l'Italia assapora la luce delle riaperture, ma in casa Travaglio ancora s' indossa il lutto d'ordinanza: il Recovery Plan? L'ha scritto Conte e i soldi che verranno sono merito suo, Mario Draghi sta vendemmiando sulle fatiche dell'avvocato di Volturara Appula; il decoratissimo generale Figliuolo? Poco meno che un inquilino abusivo, avvezzo al proclama stentoreo e vanitosamente piazzato laddove troneggiava ai tempi belli l'onnipotente compagno Arcuri.

 

 

 

 

Per la verità, dacché i suoi sodali pentastellati sono finiti in maggioranza con Matteo Salvini (di nuovo!) e con l'arcinemico Silvio Berlusconi - il "cazzaro verde" e lo "psiconano" nel teatro di strada grillino - Travaglio sembra l'Alberto Sordi di "Tutti a casa": «Signor colonnello, accade una cosa incredibile, i tedeschi si sono alleati con gli americani allora tutto è finito». E oggi si ritrova a dover impersonare un'opposizione forsennata al governissimo di Draghi come nemmeno Giorgia Meloni, che dell'opposizione parlamentare è la monopolista legittima. «Il governo dei ricchi», lo chiama lui, esterrefatto dalle giravolte del Movimento balcanizzato. Perché Travaglio aveva scommesso tutto sui giallorossi, guidati vischiosamente da quel Conte che era divenuto il «fortissimo punto di riferimento» progressista dei democratici, quando a comandare al Nazareno c'era il gregario Nicola Zingaretti e il direttore del Fatto fungeva da spirito guida dell'alleanza assieme al Rasputin Casalino. Come noto, in inverno l'altro arcinemico Matteo Renzi s' è incaricato di spazzare via l'equivoco di Palazzo Chigi e la linea massimalista del Fatto - andare al voto con una lista Conte fresca di conio -è stata fragorosamente smentita dalla realtà e dal senso pratico dei grillini o di quel che ne resta. Risultato: fine di un sogno, tramonto di un'egemonia illusoria costruita sulle macerie pandemiche attraverso uno staterello di polizia sanitaria affidato alla giunta dei virologi di regime. Dolore acuto mutato in sindrome passivo-aggressiva - la denuncia del complotto ordito dai poteri forti - e sfociato in vendette sanguinarie come quell'altolà, suggerito a Conte con un editoriale sicario, alla candidatura di Zingaretti a Roma affinché non disintegrasse un'altra medaglia al valor politico travaglista: Virginia Raggi.

 

 

 

 

E ora, che fare? Con Beppe Grillo fuori gioco per via del figlio sotto indagine per stupro; con Luigi Di Maio pietrificato come l'impronta delle sue terga sulle poltrone di tre governi in una legislatura; resta forse un pezzo di cuore da lanciare verso Alessandro Di Battista, il pupillo della rivoluzione populista. Chissà. Nel frattempo è lotta dura contro il tandem Draghi/Figliuolo e contro tutti i collaborazionisti del nuovo occupante tecnocratico. Una lotta dal sapore anche liberatorio perché, vuoi o non vuoi, Travaglio gravitava in area di governo da troppo tempo, sia pure senza poter ammetterlo: dal 2018, quando Grillo e il sempre detestato Davide Casaleggio gli avevano inflitto il contratto con Salvini. Adesso finalmente si torna ai fasti dell'antiberlusconismo e dell'antirenzismo, all'ebbrezza manettara degli Ingroia e dei Di Pietro, delle liste Tsipras d'ogni ordine e grado e insomma di tutto quel caravanserraglio della così detta e variopinta società civile. Ed ecco agitarsi invisibili, tra le righe del Fatto, come in un sabba antologico, le ombre dei fantasmi girotondini, le larve giacobine del popolo arancio e viola, i detriti di una verdeggiante giovinezza d'opposizione tetragona. Eccolo, dunque, l'ultimo Travaglio, gran cerimoniere di una seduta spiritica quotidiana convocata per riscattare le sconfitte rispolverando lo squadrismo della prima ora; sempre con l'indicibile gioia ottusa di non averne azzeccata una, in fatto di leader politici.

 

 

 

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