Analisi

2 giugno, a 75 anni dal referendum: siamo una Repubblica ma non ancora una nazione

L'Italia è una Repubblica da 75 anni, ma non è ancora una nazione. Ernest Renan in una conferenza alla Sorbona l'11 marzo 1882 alla domanda su che cosa sia una nazione risponde che «essa è un'anima e un principio spirituale. È il comune possesso di ricordi, il desiderio di vivere insieme, la volontà di fare valere l'eredità ricevuta indivisa». Ed è proprio qui il punto dolente per quel che riguarda il nostro Paese: l'eredità ricevuta è ancora oggi elemento di lacerante divisività. Infatti, non c'è pagina di storia repubblicana di cui si possa liberamente dibattere senza trovarsi scaraventati in mezzo a polemiche feroci e a strumentali contrapposizioni. Le radici storiche di una tale anomalia affondano negli anni a cavallo fra il '43 e il '47, quando si finge di combattere con spirito unitario il fascismo e ci s' illude di potere costruire un sistema di democrazia liberale in cui tutti i protagonisti possano riconoscersi. La Repubblica italiana poggia fin dalla nascita su due distinte aree di legittimazione. 

Sullo sfondo della Guerra fredda si formano due schieramenti politici del tutto antitetici: uno liberaldemocratico e maggioritario che guarda al mondo occidentale quale bussola per la definizione del futuro del Paese, mentre l'altro - comunista e minoritario - riconosce solo strumentalmente i valori della democrazia rappresentativa avendo come costante punto di riferimento l'Unione Sovietica di Stalin. Si gettano le basi, in tal modo, per la formazione di due Italie segnate da eredità e ricordi diversi. A tal proposito, vale la pena di sfatare il mito, diffuso a piene mani dal Partito comunista, secondo cui è nell'unità antifascista che trova legittimazione sia la democrazia che una comune memoria nazionale. Niente di più falso. L'unità antifascista si trovava già in stato comatoso durante gli anni della lotta di Liberazione anche se formalmente essa venne liquidata definitivamente nel maggio '47, quando Alcide De Gasperi scaricò le sinistre dal governo. 

È lo stesso futuro presidente del Consiglio, nel febbraio 1944, che nello scrivere il programma della Democrazia Cristiana annota che «l'antifascismo è un fenomeno politico contingente che, ad un certo punto, per il bene e il progresso della nazione sarà superato da nuove solidarietà politiche più coerenti nelle correnti essenziali della nostra vita pubblica». Alla fine dello stesso anno De Gasperi, in una lettera inviata a Luigi Sturzo, ritorna sull'argomento e non nasconde le preoccupazioni per il fatto che «i comunisti hanno il mito della Russia... Ho l'impressione che sperino di conquistare una dittatura di fatto attraverso le forme democratiche». Timori, in tal senso, erano presenti anche in formazioni distanti da quella cattolica, come si evince dalle lettere che si scambiano fra il '43 e il '45 due dirigenti di Giustizia e Libertà, Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco. Si leggono frasi come queste: «tenere sempre molto d'occhio i comunisti... Sono dei veri porci». Sic! All'indomani della Liberazione ciò che ardeva sotto la cenere esplose con inaudita ferocia in particolar modo nel famigerato "triangolo rosso" fra Bologna, Modena e Reggio Emilia. 

Vengono trucidati, per mano degli ex partigiani comunisti, sacerdoti, proprietari terrieri, numerosi militanti ed ex partigiani vicini al mondo cattolico. Intanto, nelle piazze non era difficile ascoltare parole come quelle proferite più volte durante i comizi dall'allora segretario del Partito socialista (legato al Pci da un patto di unità d'azione) Lelio Basso, il quale si diceva convinto che occorresse «impedire la nascita di una Repubblica borghese anche violando la legge». Karl Marx sosteneva che le abitudini mentali di un popolo sopravvivono alle cause che le hanno prodotte. La nostra Repubblica è nata sotto il segno dell'ambiguità e si è sviluppata secondo canoni divisivi. Dopo 75 anni è forse giunto il momento di superare vecchie e antistoriche persistenze, per diventare finalmente una nazione.