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Mario Draghi, dalle sacre stanze filtrano i timori: "Può accadere qualunque cosa", i guai M5s inquietano premier e Pd

Fausto Carioti
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Ci hanno messo un po', ma alla fine nel Partito democratico l'hanno capito: quando un'accozzaglia confusa come quella dei Cinque Stelle va in crisi, può succedere qualunque cosa. Anche che esca dal governo: esito in cui spera il 23% degli elettori del M5S, secondo il sondaggio fatto da Swg per il telegiornale di La7. Così ieri è arrivato l'avvertimento: se fate una mossa simile, l'alleanza con il Pd è finita. E dunque scordatevi di presentarvi con noi alle elezioni politiche (un isolamento che farebbe impennare il numero, già alto, di parlamentari grillini destinati a non essere rieletti). Un ammonimento preventivo, insomma, nella speranza che basti. Ha provveduto Debora Serracchiani. Dopo essere stata bersaniana, renziana e zingarettiana, l'ex enfant prodige del movimentismo progressista oggi fa il gendarme per conto di Enrico Letta, che l'ha voluta capogruppo alla Camera dei deputati. Forte delle sue mostrine e con sprezzo del congiuntivo, ieri ha inviato il messaggio dalle colonne della Stampa: «Se M5S e Conte decidono di lasciare il governo Draghi e la maggioranza, sarebbe un problema per il Paese e il Pd lo riterrebbe molto grave, perché in questa fase storica bisogna mettere gli interessi del Paese avanti a quelli dei partiti». Tradotto: al Nazareno sappiamo benissimo che per recuperare consensi in vista delle elezioni politiche vi converrebbe andare all'opposizione e ricominciare a strillare come ossessi, e sappiamo pure che la cancellazione del blocco della prescrizione voluto da Alfonso Bonafede, operazione che Marta Cartabia pare intenzionata a fare, per molti di voi è un perfetto casus belli; ecco, non ci provate.

 

 

SINDROME CINESE
C'è dell'altro, ovviamente. La variabile internazionale, ad esempio. Ossia il rapporto speciale tra l'ambasciatore cinese a Roma, Li Junhua, e Beppe Grillo, che ha reso il movimento Cinque Stelle una sorta di filiale italiana del governo di Pechino, al quale non piace che Mario Draghi intenda rivedere gli accordi di partecipazione al progetto politico -commerciale chiamato "Via della Seta", firmati da Luigi Di Maio. Ancora, ci sono le ambizioni personali di Giuseppe Conte, il quale ogni volta che vede Draghi in televisione pensa a quanto è stato ingiusto il destino, e sogna di rifarsi. C'è la guerra tra bande dentro il movimento, dove molti che non hanno più nulla da perdere sentono il richiamo di Alessandro Di Battista, convinto che entrare nel governo Draghi sia stata «una scelta scellerata».

 

 

A partire dal 3 agosto ci sarà pure il semestre bianco, durante il quale non potranno essere sciolte le Camere: perfetto per chi vuole provocare incidenti in parlamento senza rischiare il voto anticipato. Una miscela altamente instabile, che sconsiglia di affidarsi a ragionamenti tipo: siccome i Cinque Stelle sono al governo, rimarranno buoni. Se non altro perché i vantaggi diretti dell'appartenenza all'esecutivo riguardano quattro ministri e undici sottosegretari pentastellati, mentre a portare acqua al mulino di Draghi provvedono 75 senatori e 162 deputati. Senza costoro l'esecutivo avrebbe comunque i numeri per tirare avanti, ma la sua forza e le sue speranze di sopravvivenza si ridurrebbero parecchio. Così ora nel M5S sanno che possono rimanere alleati del Pd solo se faranno i bravi col premier, senza abbandonarlo per provare a recuperare i tantissimi consensi che hanno perso. Logorati al governo.

 

 

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