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Vittorio Feltri, liti e pranzi riappacificatori con Gianni Brera: "un uomo di cui sarà difficile se non impossibile avere in futuro una copia"

Vittorio Feltri
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È in uscita un libro di Franco Brera (Mai paura, Cinquesensi editore), figlio di Gianni, artista della penna che si distinse nella narrazione epica di vicende sportive. È piacevole e commovente scoprire l’intimità anche famigliare di un gradissimo giornalista, paragonabile a Montanelli per abilità e inventiva. Il fatto che sia un suo erede diretto a raccontarlo con affetto e ammirazione aumenta l'interesse verso un personaggio inimitabile quanto a scrittura e inventiva.

Secondo me Gianni Brera, sebbene stimato da un pubblico colto amante non solo dello sport ma pure delle belle lettere, è stato sottovalutato dalla critica e dal grande pubblico, benché il suo nome fosse conosciuto dalle folle incapaci di cogliere certe raffinatezze stilistiche. Bravo il figlio Franco a riproporci il suo papà nel modo giusto, un uomo di cui sarà difficile se non impossibile avere in futuro una copia. Col quale io ebbi un rapporto altalenante tuttavia sempre improntato ad ammirazione. Nel 1988 litigammo brutalmente. Egli voleva con l'appoggio di Paolo Pillitteri, allora sindaco di Milano, che le successive Olimpiadi si svolgessero a Milano. Io non ero d'accordo perché il capoluogo lombardo, avendo subìto la devastante nevicata del 1985, era rimasto privo di strutture idonee a una manifestazione mondiale. Il Palazzo dello sport era crollato, il Vigorelli molto danneggiato, non esistevano né uno stadio in grado di ospitare gare di atletica né una piscina di dimensioni adatte a competizioni internazionali di nuoto. Tutte queste osservazioni le pubblicai sul mio giornale, il Corriere della Sera, in risposta a coloro che appoggiavano la candidatura di Milano per i Giochi che si sarebbero svolti 4 anni dopo.

 

 

 

Tra l'altro, in quel periodo, mi trovavo a Seul dove erano in corso le gare dei cinque cerchi. Quando uscì il mio articolo critico, Brera montò su tutte le furie e mi contestò in maniera brutale. Al che risposi per le rime dicendo che l'illustre collega aveva toccato il fondo della bottiglia. La querelle si concluse lì. Passano quattro o cinque anni, e io divento direttore dell'Indipendente. Un dì mi reco in un ristorante di Corso Sempione, entro, e in un tavolo trovo Brera che pasteggia. Fingo di non averlo visto e mi accomodo il più distante possibile da lui per evitare di riaccendere la vecchia polemica. Trascorrono sì e no dieci minuti e il cameriere mi recapita un vino pregiato con un biglietto. Leggo: caro Feltri, spero che anche tu oggi possa arrivare al fondo della bottiglia.

 

 

 

Più commosso che imbarazzato, mi alzo e vado a ringraziare l'immenso Gianni, il quale mi accoglie sorridendo e invitandomi al suo desco. Fu così che nacque una bella e indimenticabile amicizia. Brera era un affabulatore incantevole. Spiattellava argomenti a sfondo culturale che mi lasciavano a bocca aperta. Quando poi rientravo al giornale controllavo tutte le sue affascinanti chiacchiere sulla Treccani e verificavo che aveva detto soltanto cose esatte. Ammirato, frequentai a lungo in trattoria Brera. Un giorno mi consegnò affettuosamente cinque suoi inediti corposi. Me li regalò, non pretese una lira. Ne pubblicai uno alla settimana sul mio quotidiano guadagnando 5 o 6mila copie a botta. Miracolo: non ne persi più nemmeno una. Il mio successo all'Indipendente cominciò così: con l'apporto decisivo di Brera, a cui devo la mia consacrazione di direttore. Un'ultima annotazione. Allorché ero un giovane cronista ogni martedì acquistavo il Guerin Sportivo su cui Brera scriveva la rubrica di una pagina intera intitolata «Arcimatto». Un capolavoro settimanale leggendo il quale capii che in questo nostro mestieraccio non sarei mai stato all'altezza sua. Pazienza. Bisogna sapersi accontentare. 

 

 

 

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