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Afghanistan, ecco i 53 soldati italiani morti che abbiamo tradito

Renato Farina
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Sono tornati cinquantatré volte nelle bare avvolte dal tricolore. Anzi no. A essere rimpatriato sui tristi e lenti Hercules è stato solo il loro corpo trivellato dalla mitraglia, frantumato dalle granate, ricomposto nelle belle divise; ma l'anima non gliel'ha spappolata nessuno, non la si può seppellire, i politici non possono per fortuna soffocarla nelle tombe uccidendola con la loro retorica, è stata donata e sta ancora là tra quei bambini di Herat e di Kabul. Ingannati tutti! I soldati morti e i bambini rimasti vivi, i quali ormai sono diventati grandi, e chissà se qualcuno tra loro vorrà ancora bene e ricorderà per nome il caporal maggiore alpino Tiziano Chierotti, il sergente bersagliere Michele Silvestri e gli altri cinquantuno morti sulla loro terra pietrosa. O magari li odia di già perché ha scoperto che furono missionari di una causa da falsari, in una religione che non crede in Dio e straccia le promesse di fraternità. E lo fa dopo aver sacrificato come mercanzia da strapazzo l'impeto di militari generosi. Morti per chi e perché? Erano convinti di aver suscitato la speranza di popoli disgraziati.

 

 

 

 

Ma i capi delle nazioni occidentali sapevano già che li avrebbero abbandonati dopo aver giocato alla guerra per la democrazia, «per ragioni interne» come ammette adesso in un impeto di sincerità addolorata Angela Merkel. Quei cinquantatré nostri fratelli d'Italia sentivano sé stessi non come poliziotti internazionali a tempo determinato ma ci avevano creduto, accidenti, si sentivano davvero in «missione», come dicono gli atti parlamentari, rubando una parola ai santi e ai martiri, perché un po' avvertivano la bellezza di questo incarico di «portatori di pace dentro la guerra», quasi angeli mandati dall'Occidente per aprire squarci di un nuovo destino tra genti oppresse. Invece sono stati strumenti di un inganno. Non è stata una capitolazione militare, non ci sono distese di carri armati fumanti, ma è stato peggio: una disfatta morale, una liquefazione della civiltà occidentale che si aveva la pretesa di trapiantare laggiù, senza crederci.

 

 

 

 

Ma quei cinquantatré e i loro compagni sopravvissuti ci avevano creduto, al punto da esporre il fianco, spesso dotati di armi di lamiera sottile, inadatti a resistere ai proiettili perforanti e allo sconquasso di mine assassine. Certo che è stata una guerra, e in guerra il male si raccoglie nei secchi e il bene con un cucchiaino. Eppure quanta potente profezia avvertivano in quel loro cucchiaio offerto a quegli sciami di ragazzi prima impauriti poi fiduciosi. Hanno aperto scuole, insegnato un mestiere, persino cantato - e qui sta la differenza dei nostri militari rispetto ad americani e inglesi - i canti di montagna e quelli napoletani. Alpini, bersaglieri, carabinieri, fanti, baschi verdi sono accorsi lì, non si sentivano affatto perfetti, ed è sbagliato dipingerli come statue d'avorio immacolato, si tiravano dietro una mescolanza di sentimenti di orgoglio e di timore, la buona paga, la voglia di tornare a casa, qualche telefonata satellitare sgualcendo le foto dei bambini piccoli, e l'idea di servire a qualcosa di grande. Lo sanno bene ancor oggi le loro vedove, le madri che hanno versato lacrime, i padri cui i ministri avevano stretto la mano assicurando che il sangue versato era semente di un mondo migliore. Nei discorsi dei ministri, sinceri, come no?, compariva la parola libertà e quell'altra, democrazia, ed infine la terza: diritti per i bambini ma anche per le bambine ad istruirsi, per le donne a liberare gli occhi dalla museruola imposta in una prigione eterna.

 

 

 

 

 

 

Ho conosciuto una splendida donna, la bersagliera siciliana Monica Contraffatto, medaglia d'oro per aver messo in salvo i suoi compagni d'armi, dopo che aveva perduto una gamba. Non riteneva sprecata la sua mutilazione, se non altro per consentire a generazioni di ragazzine di studiare e farsi belle con il rossetto... Impariamo dai nostri Cinquantatré (maiuscolo) e da Monica. Il dono della loro giovinezza non è finito in un fosso, nonostante il tradimento dei capi delle nazioni. Di certo non sarà il nichilismo consumista occidentale, condito di tecniche democratiche e di vago umanitarismo, a costruire civiltà. Senza un compito di grandezza i popoli si disfano. Anche il nostro. Grazie Cinquantatré a ricordarcelo.

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