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Covid, ancora troppa riluttanza all'idea di diminuire le restrizioni: ecco chi ha davvero paura della normalità

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L'Italia verso un nuovo lockdown

Iuri Maria Prado
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Come all'esordio dell'epidemia c'era in tanti una brama, un fregola, una voglia da matti di rinchiudere, di controllare, di spiare, di pedinare, di schedare, di multare, così oggi, in altrettanti, c'è riluttanza, resistenza o proprio avversione all'idea che la rigidità di quel complesso repressivo sia attenuata. E come allora quella propensione non era proporzionata alle esigenze di contenimento del virus, salvo credere che fosse davvero necessario perquisire la spesa del pensionato per vedere se si era trattenuto troppo al supermercato, così, ora, chi perde le staffe anche per la sola ipotesi che ci si immetta in un corso di normalità non teme la recrudescenza dell'infezione, bensì di dover rinunciare alla tranquillità dell'emergenza, al riposante stato di assedio, alla stabilità sonnolenta della società.

 

 

Che la mozione generale sia questa è evidentissimo, come era perfettamente chiaro al tempo dei verbali secretati e degli italiani cui si offriva il diritto di cantare le lodi del governo dal balcone, il governo grazie al quale potevamo goderci il percorso di penitenza e di rinunce per il bene di tutti: chiaro allora come oggi chele misure restrittive alcune delle quali necessarie, altre sicuramente no - erano adottate con intenzioni, e in ogni caso con effetti, che avevano assai poco a che fare con presunte esigenze di tipo profilattico-sanitario.

 

 

Il pessimo detto "ne usciremo migliori" era tanto più detestabile perché, per il potere che reiterava lo slogan, il miglioramento in fondo al tunnel delle libertà perdute non stava nella soddisfazione di riacquistarle, ma nell'assuefazione al farne a meno.

 

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