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Sergio Mattarella "mega-presidente". Lui parla di dignità e gli onorevoli Fantozzi lo applaudono 53 volte

Alessandro Giuli
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Parola d'ordine: dignità. Una "pietra angolare" che Sergio Mattarella pone al centro del proprio discorso d'insediamento da bispresidente e che scaglia con levità paterna in un'Aula di Montecitorio ricolma d'infragiliti parlamentari in dismissione, simili talvolta a figuranti battimani (53 gli applausi censiti). In estrema sintesi, dei trentasette minuti di eloquio quirinalizio, oltre all'indispensabile retorica della responsabilità e della centralità del Parlamento, dovrebbero restare negli annali soprattutto il sonorissimo rabbuffo inflitto alla magistratura - «un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività» - nonché l'enorme sproporzione tra il palinsesto del nuovo settennato delineato dal Capo dello Stato e la costitutiva debolezza degli astanti giunti ormai sul limitare del loro mandato. Con la legislatura agli sgoccioli, con deputati e senatori in scadenza e attesi dalla ghigliottina che ne dimezzerà i seggi, quello di Mattarella in effetti sembrava più che altro un ponderoso messaggio alla Nazione (significativo l'elogio dei concittadini e del capitale estetico e umano italiano) con qualche morbida staffilata a quel che rimane dei partiti. In un fotogramma: un uomo fortissimo del proprio reincarico di fronte a una residuale claque della Repubblica che non è riuscita a designarne un successore e si è consegnata alla perpetuazione di uno schema d'emergenza che nella verità dei fatti si configura come la nuova normalità.


MANI SPELLATE - Ha qualcosa di beffardo perfino, nell'esondazione degli applausi ascoltati, lo spellarsi di mani che ha accompagnato uno dei passaggi più emotivi del presidente, relativo all'«esempio che ci è stato dato da medici, operatori sanitari, volontari, da chi ha garantito i servizi essenziali nei momenti più critici» della pandemia assieme alle Forze Armate e alle Forze dell'ordine «impegnate a sostenere la campagna vaccinale»; vale a dire le categorie più stressate e peggio retribuite a dispetto delle promesse illusorie fatte in fretta e furia da un Parlamento smemorato. Anche sulle lentezze procedurali del potere legislativo, e non soltanto sulla compressione del suo ruolo subita per opera del governo, si è soffermato con una certa asperità il Capo dello Stato: «Un'autentica democrazia prevede il doveroso rispetto delle regole di formazione delle decisioni, discussione, partecipazione. L'esigenza di governare i cambiamenti sempre più rapidi richiede risposte tempestive. Tempestività che va comunque sorretta da quell'indispensabile approfondimento dei temi che consente puntualità di scelte». In queste parole è lecito intravvedere anche una critica rivolta ai labirintici rituali dei partiti (parlandone da vivi) oltreché alla sopraggiunta farraginosità che affligge i canali di comunicazione tra il potere esecutivo e le Camere. Sempre fra le pieghe del discorso presidenziale, non è vano segnalare quel riferimento (applauditissimo!) alla questione migratoria che non si è concentrato sul richiamo (ormai scontato) all'inclusione ma è andato ben oltre: «E' anzitutto la nostra dignità che ci impone di combattere, senza tregua, la tratta e la schiavitù degli esseri umani». Una formulazione che non sarebbe dispiaciuta a Matteo Salvini, al quale purtroppo (o per sua fortuna?) la variante Omicron ha impedito all'ultimo momento di partecipare alla liturgia della sottomissione parlamentare andata in scena ieri. Doverosi, se non addirittura protocollari, i moniti sulla violenza contro le donne, il divario di genere, l'insicurezza sul lavoro, la precarizzazione dei giovani, la necessità di combattere le mafie e l'antisemitismo; e anche qui applausi a scena aperta da parte di eletti che non avranno né tempo né modo per corrispondere alle aspettative quirinalizie. Superfluo, forse, il richiamo alla crisi in Ucraina per un uditorio che in quattro anni raramente ha mostrato uno sguardo internazionale all'altezza delle sfide in corso.


FINE LEGISLATURA - In conclusione. Non avevano torto i quirinalisti più informati quando negli ultimi giorni ci lasciavano intendere che Mattarella non avrebbe sculacciato il Parlamento a differenza di quanto fece il rieletto Giorgio Napolitano nel 2013. La ragione è abbastanza ovvia: quella cui si rivolgeva il presidente post comunista era una platea di neoeletti in una legislatura nella sua fase aurorale. Oggi siamo al crepuscolo, invece, il che rende ancora più vivida l'immagine che riassume il senso della giornata: Mattarella (Quirinale), Draghi (Palazzo Chigi) e Giuliano Amato (Corte Costituzionale) riuniti a colloquio dentro Montecitorio poco prima del discorso presidenziale, raggiunti in coda dai superflui presidenti delle Camere, Elisabetta Casellati e Roberto Fico. Ovvero le figure apicali e strategiche italiane, tre cariche non direttamente elettive da parte del popolo, che s' intrattengono amabilmente nei vestiboli di un tempio negletto e sconsacrato in cerca di una ritrovata dignità. La parola d'ordine di Mattarella, per l'appunto. 

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