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Vladimir Putin, così lo zar frantuma i sogni dell'Occidente: perché la globalizzazione ha fallito

Corrado Ocone
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Che la stagione della globalizzazione, iniziata con l'implosione dell'Unione Sovietica e la fine del comunismo anche nei Paesi satelliti fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, sia bella e finita, in molti lo hanno già detto e argomentato. La recente pandemia è sembrata dare il sigillo finale a questo cambio di paradigma del mondo. Non sono mancati alcuni, come ad esempio il filosofo Roberto Esposito, che hanno invece sottolineato come il diffondersi del Covid 19, e poi le politiche vaccinali, abbiano invece confermato l'interdipendenza fra le varie parti del mondo. 

In verità, quando si parla di fine della globalizzazione non si intende affatto mettere in discussione questa interdipendenza, che è nei fatti, quanto piuttosto una certa ideologia che l'ha accompagnata e giustificata e che potremmo chiamare globalismo: quella che faceva dire a Francis Fukuyama, poco prima che il XX secolo giungesse a termine, che "la storia era finita" e che ormai il modello del capitalismo democratico non era più contestabile. La guerra in Ucraina, con le mire espansionistiche e imperiali di Putin, è un'ulteriore e drammatica conferma della fallacia di quella tesi. Non perché segni il ritorno della Russia sullo scacchiere mondiale, ancora una volta in funzione antioccidentale, ma perché più radicalmente essa dimostra che le guerre e i conflitti in nome di entità nazionali, che sono state la costante della storia, sono ancora la molla che muove i rapporti fra popoli. 

Putin, con la sua temeraria azione, non conferma forse che valori come la democrazia, l'autodeterminazione dei popoli, l'indipendenza, i diritti umani, sono relativi e che, soprattutto, non si affermano per forza propria? Oggi l'autocrate russo parla della "provocazione occidentale" che ha portato la Nato e l'Ue a varcare la soglia di sicurezza rappresentata per la Russia da quei Paesi che hanno storicamente fatto da cuscinetto fra essa e il resto del mondo, dal Baltico al Mar Nero. In verità, l'espansionismo occidentale, che senza dubbio c'è stato, non è stato intenzionalmente provocatorio, ma è nato da un'illusione e da un pregiudizio che si può dire abbia contrassegnato il liberalismo sin dal momento della sua nascita. Lo potremmo chiamare progressismo, non nel senso politico del termine ma in quello della convinzione che noi occidentali tutti abbiamo sempre avuto che i nostri valori fossero universali e che si affermassero per virtù propria. C'è tutta una retorica, che parte da Smith e Bastiat e arriva ai moderni esponenti del neoliberalismo, che vuole che basta mettere i popoli a conoscenza del nostro modello e stile di vita, delle nostre libertà, perché essi vi aderiscano ipso facto. «Due popoli che commerciano non si fanno la guerra», diceva a torto già Montesquieu. 

Che, forse, non è vero, come si dice, che l'Unione Sovietica sia crollata per i supermercati vuoti piuttosto che per la paura degli euromissili schierati da Reagan? Ora, l'età della globalizzazione è stata mossa da questa idea. E il globalismo non era altro che il riproporsi di questo progressismo fideistico proprio di un certo liberalismo. È anche per questo che le armi dell'Occidente si trovano spuntate: la storia ci dimostra, in questo caso con il ferro e il fuoco, che non esistono automatismi e che non è vero che la direzione di marcia è segnata. Ecco, se avessimo avuto una visione più tragica della nostra civiltà, se avessimo coltivato l'idea che il peggior male del passato può sempre tornare, che le nostre libertà sono fragili come la ginestra di Leopardi che fiorisce sulle falde del Vesuvio, forse saremmo stati più vigili, avremmo capito la Russia e avremmo agito con più prudenza senza fra l'altro legarci mani e piedi ad essa per il soddisfacimento del nostro fabbisogno energetico. Oggi avremmo più forza per reagire. Lo storico inglese Donald Sassoon ci ricorda che un primo tempo del processo di globalizzazione ci fu già a cavallo fra Otto e Novecento. 

Anche in quel caso esso fu accompagnato da un acritica fede, positivistica fra l'altro, nella forza autoevidente del nostro Progresso e della nostra civiltà. Gli spari di Sarajevo misero fine a quell'illusione e generarono quella "crisi di civiltà" che ci portò dritti nella braccia dei totalitarismi. Siamo ancora in tempo per evitare che una finale simile ci tocchi ora che Kiev e Odessa hanno mostrato tutta la velleità del nostro incedere alla conquista dell'Est, europeo e non, con le armi del mercato e dei diritti individuali?

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