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Centrodestra, Senaldi picchia duro: lacrime di coccodrillo. Non capiscono la lezione...

Pietro Senaldi
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Il giorno dopo, nel centrodestra, è quello delle lacrime di coccodrillo. Tutti a dire di aver capito la lezione: uniti si vince, divisi si perde. Tutti a giurare davanti ai microfoni che non succederà mai più, di farsi la guerra sul territorio per consegnare anche le roccaforti come Verona alla sinistra. E così Meloni invoca: «Basta liti, vediamoci al più presto per evitare altre divisioni. Ricordiamoci che l'avversario è la sinistra». Salvini risponde presente: «Incontro anche domani, e prepariamo la prossima squadra e il programma di governo». Berlusconi se la prende con l'astensionismo e «le divisioni che lo provocano» e si impegna a «promuovere un confronto approfondito con gli alleati». Ma la frase successiva, anziché un mattone sulla nuova via per ricompattare il centrodestra, è sempre un j' accuse all'alleato di turno. Giorgia ricorda a Matteo che «è difficile che gli elettori premino un candidato che prima delle urne un leader ha già battezzato come sconfitto». Matteo replica che «spiace perdere città come Verona malgrado l'impegno dei militanti causa faide interne che non si dovranno ripetere». Perfino l'ecumenico Silvio non rinuncia alla stilettata: «Il centrodestra vince solo con candidati moderati e preparati».

 

 


NODI IRRISOLTI
E dal Veneto parla il neo forzista Tosi, spiegando con malcelata soddisfazione che siccome il neo fratello d'Italia voleva fare tutto da solo e ha rifiutato di collaborare «un terzo dei miei elettori è rimasto a casa, l'altro ha votato Tommasi e il restante 33% ha seguito le indicazioni della coalizione». Insomma, per chi non l'avesse capito, la lezione non servirà a nulla, come non è servita quella dell'ottobre scorso, a Milano e Roma. Ci fosse un altro giro di amministrative, la regola sarebbe la stessa: o si corre tutti uniti, e si vince al primo turno, o al ballottaggio scattano i coltelli nella schiena, come accadde nel capoluogo lombardo anche sei anni fa, con Parisi vincente al primo turno e pugnalato a morte al secondo da schegge impazzite del centrodestra.

 

 


Forza Italia tiene, in Lombardia è sopra il 10%, e questo pare consolarla e consentirle di farsi bastare a se stessa. Fdi è stato consacrato primo partito, ha dimostrato di non poter vincere da solo, né nei Comuni né a questo punto nel Paese, ma a Catanzaro ha fatto capire di avere la forza di sbarrare il passo a chiunque. E questo sia di ammonimento per la candidatura alle Regionali siciliane e, poi, a quelle lombarde. Quanto alla Lega, rivendica che il centrodestra ha portato a casa 58 comuni sopra i 15mila abitanti contro i 54 di cinque anni fa. Chi si contenta gode, anche se ci vogliono abilità contorsionistiche rare per compensare certe sconfitte in casa, dalla Lombardia al Veneto, dal Piemonte all'Emilia, con affermazioni in periferia o con pieno di Fedriga in Friuli Venezia Giulia, dove il governatore simbolo dell'ala moderata del Carroccio, nel ruolo di federatore ha vinto quasi ovunque. In casa centrodestra si guarda al bicchiere mezzo pieno, ma l'elettore di centrodestra vede quello mezzo vuoto. Per questo, non per un'allergia congenita alle urne d'estate, domenica si è rifugiato nell'astensionismo. La miopia dell'alleanza, tutta, da tempo è quella di parlare di persone anziché di programmi, di tattica anziché di progetto. Se l'elettore vede, sempre per parlare della città simbolo della sconfitta, Sboarina e Tosi litigare, non si chiede chi abbia ragione ma toglie la palla a entrambi, perché se per i partiti la sostanza non sono i progetti ma i nomi, il cittadino non capisce perché dovrebbe sceglierno uno piuttosto che un altro.

 

 


LA QUESTIONE LEADERSHIP
Scuote il capo Guido Crosetto, ex forzista, fondatore di Fdi e dimissionario dal Parlamento: «La prossima legislatura», spiega, «vedrà il ritorno della politica nella stanza dei bottoni. È avvilente vedere il centrodestra parlare di chi sarà il premier. I leader trovino l'accordo prima su un programma: cosa fare per la povertà, le tasse, la scuola, le emergenze nazionali. Poi, se la coalizione vincerà, deciderà chi mettere a Palazzo Chigi, ma saranno i partiti a guidare il gioco, non ci sarà un nuovo timoniere come Draghi oggi. Il prossimo premier nascerà da un accordo politico e a esso dovrà rispondere», chiosa lo spirito pragmatico del centrodestra. Con il suo vago e scombinato campo largo, il leader della sinistra, Enrico Letta, sembra aver capito almeno questo. Il potere fa la forza e fa da collante, da Fratoianni a Di Maio, da Renzi a Conte; la brama di potere fa la sconfitta, malgrado elettorato e programmi dei paritti di centrodestra siano più uniti e omogenei di quelli dei rivali. E malgrado, numeri alla mano, anche a questo giro Berlusconi, Meloni e Salvini abbiano preso più voti degli avversari: cinquecentomila preferenze in più su oltre tre milioni e mezzo di votanti, per uno scarto del 15%: 52% al centrodestra, 37% alla sinistra. Unità è uno slogan, ma non può essere una parola d'ordine. In una coalizione dovrebbe essere la premessa di partenza e il risultato di un lavoro di sintesi. Sul territorio come a Roma. Dove è stato così, il centrodestra ha vinto, dove non è stato così, il centrodestra ha perso.

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