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Feltri racconta l'antifascista che fu odiato dagli antifascisti: chi era Prezzolini

Vittorio Feltri
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Non bastano ad un uomo cento anni e cento libri per scalfire un pregiudizio appiccicatogli addosso. Giuseppe Prezzolini forse lo sapeva, eppure ha tentato fino alla fine e senza contarci troppo di spiegarsi con il disperato e mesto grido della penna. Una penna tenace, non vi è dubbio, dato che lo scrittore continuava a brandirla nonostante gli acciacchi, i dolori e le fatiche accumulatesi nel corso di un secolo più nell'animo che nelle membra. Allorché lo conobbi, nel suo appartamento tappezzato di volumi, sito in via Motta, a Lugano, mi accorsi tuttavia che decenni di battaglie non avevano potuto nulla sulla sua indole di bastiancontrario. Prezzolini era ostile ai luoghi comuni e alle convenzioni e di comandato non tollerava neanche le feste. Incluso il suo compleanno. Persino il centesimo lo aveva trascorso nel modo consueto, ossia sigillato nella sua impenetrabile ed orgogliosa solitudine, barricato nel suo antro, posto davanti allo scorcio più bello del lago di Lugano, ignorando lettere, telefonate e telegrammi.
 

 

ESILIO VOLONTARIO Nonostante il suo esilio volontario, un dì - seppur tardivamente - gli italiani si sono accorti di Prezzolini. E non per le sue opere ed il suo pensiero. Di Giuseppe stupiva ed affascinava il fenomeno biologico, ovvero la straordinaria longevità. Dunque egli continuava a restare un personaggio sconosciuto sia alla massa, per la quale lo scrittore era al massimo un simpatico e bizzoso vecchietto, sia ai colleghi, secondo i quali Giuseppe era dotato sì di ingegno, tuttavia lo aveva sprecato in atteggiamenti e attività censurabili. Lo consideravano «fascista», «bieco reazionario», «teppista intellettuale», «nemico del popolo», «disfattista». Togliatti lo definì: «Meretrice vecchia venduta su tutti i marciapiedi». Furono forse le parole più gentili dedicategli.
Nel momento in cui, in prossimità della fine del secondo conflitto mondiale, i fascisti si scoprirono improvvisamente antifascisti, Giuseppe Prezzolini era già migrato da decenni negli Stati Uniti, dove rimase fino al 1968.
Un gesto clamoroso per prendere le distanze da un movimento i cui tratti di ambiguità stavano piano piano emergendo e pure dall'uomo che lo rappresentava e incarnava, Benito Mussolini, il quale un tempo lontanissimo era stato suo caro amico. Benito allora non era ancora il duce, bensì un maestro elementare con la marsina lisa. Allorché il maestro si trasformò nella persona che tuonava dallo storico balcone, con mezza Italia plaudente in camicia nera, Prezzolini, anziché godersi un posto nella lugubre corte dell'impero, prenotò un posto di terza classe su una nave e varcò l'oceano, non senza prima donare ai connazionali una profezia: «Il fascismo sarà una buffonata, ma per vent' anni almeno ve lo terrete addosso. Io tolgo il disturbo», e sventolando il cappello scomparve piano piano all'orizzonte. E così fu.
 

 

 

NON C'È PEGGIOR SORDO... Ciò che il giornalista non aveva previsto è che gli antifascisti dell'ultima ora, dopo il sanguinoso rovescio, sarebbero stati i suoi più acerrimi nemici e si sarebbero accaniti contro il professore alla Columbia University, che aveva vissuto all'estero di stipendio, mentre i suoi colleghi durante il regime avevano primeggiato nei littoriali e si erano scambiati medaglie nei salotti migliori.
Insomma, l'emigrazione non salvò Giuseppe dall'accusa di collaborazionismo e tutt' oggi il suo nome è sinonimo di fascista. A nulla valsero cento libri e centinaia di articoli pubblicati sul Borghese e sul Resto del Carlino per fare comprendere agli abitanti della penisola chi era e chi fu Giuseppe Prezzolini. Poiché essi non lo volevano comprendere.
Non deve stupire che lo scrittore preferisse fare l'esule in Svizzera piuttosto che ricevere tardivi onori in patria. Pertini gli consegnò la "penna d'oro", Spadolini gli riservò parole di encomio, Giuseppe apprezzò. Ma tali riconoscimenti avevano ormai un sapore quasi amaro. Gli costarono la fatica di recarsi fino a Roma. Per un giorno solo. Non di più. Dover compiere cent' anni per ricevere un apprezzamento nella propria terra madre fu eccessivo pure per un disubbidiente ben consapevole quale era Prezzolini, il quale, avendo sempre detto nossignore, non poté aspettarsi molto dai potenti.
Giuseppe non aveva compiuto studi regolari, anche perché era refrattario alla disciplina. «Strappavo i libri, ai banchi di scuola non volevo sedere», mi confidò.
Era stato educato da Papini, suo precettore, il quale lo avviò alla cultura con la persuasione. Avere a tua disposizione un professore di grande livello tutto per te ti agevola alquanto. Difatti Prezzolini aveva una scrittura brillante e chiara ed una preparazione sconfinata, coltivata più che altro da solo. All'università ci arrivò sì. Direttamente da docente.
Allorché mi venne voglia di conoscere lo scrittore, questi aveva da poco compiuto cent' anni, trascorrendo il dì del suo compleanno nel modo in cui gli era più congeniale, ossia lavorando, come ebbe modo di dirmi egli stesso. In Italia veniva raramente e si fermava al confine, giusto il tempo di acquistare il suo vino preferito.
Dunque non mi restava che raggiungerlo in Svizzera, ma prima era necessario riuscire nell'impresa di prendere un appuntamento. In qualche modo e non senza fatica fui in grado di mettermi in contatto con lui e gli chiesi un'intervista sia per la televisione, Rete 4, sia per la Domenica del Corriere.
 

 

AL COSPETTO DEL MONUMENTO Era il febbraio del 1982. Prezzolini accettò ed io lo feci parlare con mio fratello per trattare il compenso, poiché lo scrittore non facevano nulla gratuitamente. Tuttavia, il prezzo stabilito non fu esagerato: 200mila lire. Fissammo il giorno e l'ora della visita al suo domicilio. Alle 9:30 del mattino, che per me era praticamente l'alba, suonammo il suo campanello e fummo accolti nella sua signorile se pur modesta dimora, priva di fasto come la sua esistenza, da una donna di una certa età, suor Margherita Marchione, sua ex allieva italoamericana, la quale si prendeva cura di Prezzolini il quale aveva da poco più di un mese perso la seconda moglie. Il medico quel dì lo trovò seduto accanto alla consorte defunta, immobile, le mani sulle ginocchia e lo sguardo fisso. «Che cosa fa, professore, lì in quel modo?». E Prezzolini: «Aspettavo lei per piangere».
Ma torniamo al momento in cui ebbi la fortuna di conoscere lo scrittore, che per me era un monumento, anzi un dio. Ero addirittura emozionato. E mi aspettavo di trovarmi davanti un vecchio signore centenario, che si muoveva a fatica e parlava con tono flebile e ritmo lento, quasi estenuante. La sorella ci fece accomodare in un salottino e dopo pochi minuti si palesò Prezzolini, arzillo e squillante, vestito di tutto punto.
«Avete portato i soldi?», esordì.
Lo rassicurammo porgendogli la busta. E poi si scusò: «Purtroppo, prima di dedicarmi a voi, devo terminare un articolo per il Resto del Carlino, tuttavia non ci metterò più di venti minuti. Nell'attesa vorrei offrivi qualcosa». E lasciò la stanza per tornare con una bottiglia di grappa, quando noi ci saremmo aspettati al massimo il caffelatte. Lo guardammo sorpresi, ma né io né mio fratello Ariel osammo obiettare. Prezzolini si ritirò nel suo studio lasciando l'uscio semiaperto così che dalla nostra postazione potevamo vederlo intento alla macchina da scrivere. Vergava alla velocità della luce, tanto che temevo che l'aggeggio prendesse fuoco.
 

 

 

TENTATI SUICIDI Dopo una quindicina di minuti finì la sua opera, la rilesse, fece due correzioni e subito ci raggiunse per invitarci in quel locale che fungeva da ufficio ed in cui Giuseppe se ne stava sommerso da carte, giornali, fogli e foglietti, perfettamente a suo agio nel tipico disordine delle persone attive.
Era un piacere intervistare Prezzolini, poiché era secco, brillante e disinvolto nelle risposte, e questo semplifica alquanto il lavoro del cronista. Mi raccontò almeno metà della sua vita e ne rimasi colpito. Mi narrò persino di quelle due volte in cui tentò il suicidio.
«Non credo volesse morire sul serio», mormorai. «Volevo morire, eccome. Ed ero pure contento di levarmi dai piedi. Anzi, morivo contentissimo, a dire il vero. Lo so perché sono stato varie ore in sala rianimazione e lo ricordo come uno dei momenti più belli della mia vita». Che strano uomo Prezzolini, riusciva ad essere davvero felice solamente in occasione del trapasso!
La conversazione fu lunga, ma non tediosa, bensì interessante.
Mi sorprese che l'uomo detestasse l'Italia, o forse gli italiani, quelli che lo aveva sempre trattato come figura di secondo piano, mentre egli era ad un livello altissimo.
Il problema di Prezzolini consisteva nel fatto che egli non fu mai schiettamente antifascista. Come Montanelli non rinnegò mai il suo passato e ciò favorì la nascita di un equivoco, ossia che fosse fascista quando invece era liberista. Tuttavia, mentre Indro riusciva a conciliare la sua attività giornalistica non conformista con la realtà italiana, Prezzolini aveva un carattere più fumantino, si incazzava come un bestia, non sopportava i luoghi comuni, il politicamente corretto.
Sebbene non mi conoscesse, dimostrò di nutrire simpatia nei miei confronti. Tanto che, quando ci lasciammo dopo l'intervista, non mi mollava più la mano.
Forse sentì un'affinità. O forse, semplicemente, si sentiva solo.
Come ci disse suor Margherita scortandoci al portone: «Gli voglio un gran bene e per stargli vicino in questo momento difficile ho chiesto al convento una licenza di sei mesi. Ora che gli è morta la moglie, ha bisogno di una persona amica. Anche se ha pudore dei sentimenti, sento che la solitudine gli fa male».
 

 

CAMPARE ANCORA UN PO' Nel frattempo Prezzolini era tornato a scrivere e dal corridoio udivamo il picchiettio forsennato e nervoso dei tasti. Aveva fretta di completare il suo ultimo libro: Prezzolini, cent' anni di attività, scritto a quattro mani con Moravia e ormai prossimo all'uscita. «Ma come? Siete ancora qui?», chiese lo scrittore sorpreso affacciandosi dal suo studio. «In bocca al lupo per il suo prossimo libro», esclamai. «Beh, vedremo se diranno che è fascista anche questo. Ma non importa. Importa invece che riesca a campare ancora un po'». Ed io: «Ma come? Diceva che morire è bellissimo». «Lo dicevo mentre morivo, ma adesso, con rispetto parlando, sono vivo». Nel mio articolo poi sottolineai che Prezzolini «con i suoi scritti ha attaccato il servizio militare, il matrimonio e la famiglia: "invenzioni borghesi". Ma è stato ufficiale nella prima guerra mondiale, due volte marito e padre. Chi non amai suoi paradossi non può capirne neppure il senso, la disperazione». Quando il mio pezzo fu pubblicato, lo scrittore mi telefonò per ringraziarmi, dicendo che l'intervista gli era piaciuta e che io ero uno dei pochi giornalisti che non ciurlava nel manico. «Non ne avrei avuto motivo. Avevo soltanto desiderio di incontrarla e di conversare con lei perché l'ho sempre ammirato», gli spiegai

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