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Pd, i veleni del dopo-Draghi: così la sinistra sta alimentando il caos

Antonio Socci
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Gli italiani arrancano fra mille problemi (presenti e futuri) e tutto vogliono fuorché una politica che diventa guerra civile. Eppure a ogni scadenza elettorale devono subire questa tempesta di fango. Si sperava che il governo Draghi, nato con una maggioranza di unità nazionale, ottenesse finalmente una normalizzazione e un clima di legittimazione reciproca fra le parti. Ce n'era un gran bisogno. Suggeriva questo anche l'appello del presidente Mattarella del 2 febbraio 2021 per il governo di tutti. Lega e Forza Italia risposero sì pur sapendo che coalizzarsi con Pd e M5S li avrebbe penalizzati nei consensi (come in effetti è accaduto). Così hanno governato insieme per un anno e mezzo. Ma appena - il 14 luglio scorso - il M5S ha deciso di non partecipare al voto di fiducia e Draghi si è dimesso (nonostante avesse ricevuto ancora la fiducia dal Parlamento), nel giro di poche ore, il Pd e il partito mediatico hanno riallestito il solito circo della demonizzazione, dell'allarme democratico e del pericolo apocalittico rappresentato dalla Destra.

 

 


Lega e Forza Italia - con cui il Pd aveva governato e sta ancora governando e con cui ha votato tutto, a partire dalle decisioni sulla guerra ucraina - sono state presentate di colpo come pericolosi "putiniani", una minaccia per l'Occidente intero (detto dal partito erede del Pci). E il partito di Giorgia Meloni - con cui Enrico Letta aveva amichevolmente presentato libri, partecipando pure alla festa di Atreju - è diventato improvvisamente sospetto di fascismo. Un pericolo per la democrazia. Del governo Draghi si può fare il bilancio che si vuole, ma di sicuro ha fallito su questo aspetto: oggi la politica è più avvelenata che mai. Il premier ha un'attenuante: è un tecnico, non un politico.

 

 

Tuttavia proprio questa sua qualità gli avrebbe permesso di guidare i partiti a una pacifica legittimazione reciproca se fosse stato - come tecnico - politicamente neutrale. Invece si è notata, fin dall'inizio, una sua preconcetta avversione nei confronti di Lega e Forza Italia: dalla scelta dei ministri (compiuta da Draghi con un clamoroso sgarbo ai leader dei due partiti, emarginati da tutto) che ha poi fatto parlare di correnti draghiane interne a quei partiti (cosa che nel M5S ha portato addirittura a una scissione), fino al suo discorso del 20 luglio, quando - dopo essersi dimesso per il venir meno del M5S, ma avendo la fiducia da Lega e Forza Italia - Draghi si è presentato in Senato proprio prendendo a sportellate Lega e Forza Italia. È sembrato che volesse provocare una loro presa di distanza che permettesse di alleggerire le responsabilità del M5S e di dimenticare il fatto che la crisi si era aperta per le sue inspiegabili dimissioni del 14 luglio. Così ha aperto la strada al Pd per incolpare "la destra" della caduta del governo e per riprendere il dialogo col M5S sul "campo largo". Anche la legittimazione che Draghi ha compiuto della leader di FdI ha dato la sensazione di essere strumentale a un altro scopo: mettere in difficoltà e isolare Salvini.


CONFLITTO INTERNO
Così, invece di essere un forte fattore di coesione nazionale e quindi di pacificazione, Draghi ha finito per portare la guerra dentro gli stessi partiti che lo sostenevano. Sempre con un occhio di riguardo verso il Pd, che si è manifestato nella scelta dei ministri o dei collaboratori, fino ai giorni della crisi. Forse non era questa l'intenzione di Draghi, ma di fatto è la sensazione che ha dato ed è il motivo per cui, quando si è arrivati alla partitadel Quirinale, lui non ha trovato il consenso che avrebbe avuto se avesse agito al governo da garante super partes. Tuttavia sarebbe ingiusto attribuire a Draghi il clima attuale. La causa dell'improvviso scoppio dell'ennesima guerra civile è dovuta al terrore che ha preso il Pd e il suo mondo di riferimento davanti a elezioni improvvise che, stando ai sondaggi, vedono il centrodestra favorito. La debolezza del Pd è la sua totale identificazione con il potere: la prospettiva concreta di perderlo lo manda nel panico.

 

 


Appare al Pd come la fine del mondo. È la diagnosi impietosa che fece, mesi fa, il più lucido intellettuale della Sinistra, Massimo Cacciari: «Il Pd non è un partito, è un insieme di avanzi di partito il cui unico collante è il potere. Deve resistere al governo per esistere. Infatti dove non sono al governo, come in alcune regioni del Nord, vivono uno smottamento completo, hanno zero base sociale. Se salta l'alleanza con i 5stelle loro che fanno? Non hanno strategia, non hanno anima». Da qui deriva l'atteggiamento del Pd di questi giorni. Ecco perché usano la strategia dell'allarme apocalittico verso il centrodestra. Il loro messaggio è: o noi o la catastrofe. Il Pd, che dal 2011 è stato quasi sempre al governo (senza aver mai vinto le elezioni), potrebbe rivendicare i suoi risultati o presentare i suoi programmi per il futuro dell'Italia. Ma i risultati del passato sono disastrosi e i programmi non ci sono, perciò resta solo una carta: gridare che gli altri sono il Male metafisico

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