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Giulio Giustiniani, Vittorio Feltri e il ricordo di "un grande giornalista"

Vittorio Feltri
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Purtroppo, o per fortuna, anche i giornalisti non sono immortali. E quando ne muore uno è come se morissi un po' anche tu. Nella tua testa si affollano ricordi dei tempi in cui hai lavorato con lui e ne eri diventato amico. Ieri si è sparsa la notizia del decesso di Giulio Giustiniani, che non era un cronista da strapazzo ma un uomo di lettere giunto ai vertici della nostra vile professione. Se ne è andato all'improvviso, come spesso accade, a causa di un tumore al cervello che lo ha stroncato in pochi giorni. Inutile dire che la sua dipartita ferisce me e Alessandro Sallusti, il quale di Giulio è stato vicedirettore al Gazzettino di Venezia negli anni Novanta. I due si erano conosciuti, iniziando a stimarsi, al Corriere della Sera ai tempi di Ugo Stille, un vecchio fuoriclasse, che aveva prelevato Giustiniani dalla Nazione di Firenze per portarlo al suo fianco, nel ruolo di vice, in via Solferino.

 

 


Un sodalizio perfetto integrato da Alessandro, infaticabile caporedattore. Quando un giornalista va all'altro mondo i lettori di norma non si stracciano le vesti, leggono le prime tre righe della notizia poi la loro attenzione si fissa su un altro articolo. Ma l'effetto su noi colleghi è molto diverso, è un lutto nel quale ci riconosciamo, la nostra mente corre all'epoca in cui lavoravamo insieme, magari anche litigando, e nel cuore trionfano nostalgia e rimpianto. Riemergono nella testa i momenti in cui facevamo insieme il giornale con la voglia di mandare in edicola dei fogli appetibili. Giustiniani era un maestro di stile, il suo lavoro come la sua persona era impeccabile e raramente necessitava di correzioni o miglioramenti. Come ogni vero primo della classe non si dava arie, ai redattori che dipendevano da lui forniva consigli, per tutti noi era una specie di compagno di scuola stimato e riverito. La notte, terminata la lavorazione del Corriere della Sera, talvolta mi invitava nella sua elegante casa in centro a Milano, corso Sempione, e cenavamo insieme. Fatalmente le nostre chiacchiere vertevano attorno a problematiche giornalistiche, che appassionavano entrambi.

 

 


La sua carriera fu più rapida della mia, forse perché era più bravo di me (e non ci vuole molto a esserlo), cosicché ci perdemmo di vista. Io a Milano a dirigere vari giornali con alterne fortune, lui ancorato a Venezia con la moglie che amava e alcuni figli. Ha smesso presto di lavorare e purtroppo anche di vivere. Non soffriva di alcuna malattia, ma pochi giorni fa svenne e la diagnosi fu infausta: cancro al cervello. Praticamente la sua fine è stata improvvisa. Ne sono profondamente addolorato. Prima o poi tocca a tutti andarsene via. Alla famiglia le condoglianze dei colleghi di Libero. 

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