Microgrammi, insieme al romanzo Il brigante, è il libro più “filologico” di Robert Walser (1878-1956), divenuto un autore di culto, grazie soprattutto alle pubblicazioni in corso dal 1970 presso Adelphi. Certamente non è il solo grande scrittore uscito dalla silenziosa e appartata Svizzera, che vanta nomi autorevoli come quelli di Constant, Gotthelf, Keller, Frisch, Dürrenmatt, fino ai più recenti casi di Ágota Kristóf o di Fleur Jaeggy, legata al suo ascetismo linguistico. Senza omettere quello più lontano di Rousseau, il più filosofico di tutti, autore delle memorabili Fantasticherie di un passeggiatore solitario, quasi un preludio al più solitario fra tutti gli scrittori solitari, Walser, appunto. È lui il passeggiatore per eccellenza, l’uomo eternamente in cammino, la creatura scesa da un altro pianeta per praticare la sua missione deambulatoria e psicomotoria, e che, non essendo un sognatore erotico ma un sonnambulo che attraversa con eleganza di passo il linguaggio, restò vergine per tutta la vita. Nato «per essere senza necessità», dichiara un suo personaggio.
Nulla a che vedere col fannullone di Eichendorff o il viandante e la sua ombra di Nietzsche. Walser agisce in superficie dove la terra si fa sogno e apre le porte dell’interiorità e del profondo. Siamo di fronte a uno scrittore inesplicato, circondato da molte domande e segreti mai rivelati. Dopo il ginnasio, lavora come praticante in una banca bernese e medita di diventare attore. A vent’anni viene introdotto nel circolo letterario della rivista Die Insel. Pur svolgendo diversi mestieri, impiegato, cameriere, uomo tuttofare, bibliotecario, la sua attività letteraria è intensa. Nel 1904 pubblica I temi di Fritz Kocher, brevi prose in cui l’autore si fa cantore, tra l’altro, della figura minima del “commesso”, l’impiegato subalterno, l’ultimo, spesso disprezzato dal mondo come il poeta, che al posto dei beni produce parole inascoltate.
Tre anni dopo è il turno de I fratelli Tanner, il suo primo romanzo. Nel 1908 esce il suo capolavoro, L’assistente, l’anno dopo Jacob von Gunten. Nel 1917 è la volta de La passeggiata, di cui è indubbia l’altezza poetica. Seguiranno i testi teatrali che compongono Commedia, i cui personaggi «hanno dietro di sé la follia», come ha osservato Walter Benjamin. Verrà dopo La rosa e il romanzo (poi scomparso) Theodor. Tutti libri che delineano un unico libro, quello dell’Io, fatto prigioniero anni dopo dall’oscurità. Infatti, dal 1929 al 1933, la sua parola comincia a evaporare. Con la diagnosi di schizofrenia viene ricoverato nella clinica Waldau di Berna. Successivamente la sua stanza è presso la casa di cura di Herisau, dove resterà fino al giorno della sua morte, avvenuta nel giorno di Natale, durante una delle sue leggendarie passeggiate.
La fotografia del suo corpo, disteso sulla neve, preceduto dalle impronte delle scarpe e dal cappello, è un’immagine potentissima, degna di un gelido epilogo cinematografico senza parole, dopo che i suoi vagabondaggi sono rimasti impressi nel suo taccuino mentale sotto forma di visioni e racconto. Con Microgrammi (Adelphi, pp. 234, €20), di cui solo una parte è qui tradotta e annotata per la prima volta con assoluta perizia dalla poetessa Giusi Drago con l’esaustiva postfazione di Lucas Marco Gisi, Reto Sorge Peter Stocker, si intende trasmettere al lettore «un’impressione dell’intensità con cui Walser si dedicò a scrivere la sua opera, che fu la sua vita».
Finalmente, con questa attesissima operazione editoriale, abbiamo nozione di parte dell’enorme lascito micrografico di Walser, accumulato durante il lunghissimo ricovero: 526 fogli scritti a matita in ogni spazio disponibile sia davanti che nel retro, con una scrittura minuscola e quasi intraducibile, sicuramente iniziata con la malattia. Il «Paese del Lapis» o «territorio della matita», ovvero il Bleistiftgebiet, come Walser chiama questo sterminato campo di parole scritte con la matita, pare essere nato da un cedimento-crampo della sua mano, abituata a scrivere i suoi testi con la penna direttamente in “bella”. Sono migliaia di pagine e paginette contenute in una scatola di scarpe inviata a Seelig l’11 agosto 1957, in cui troneggiano, ben incolonnate e conformi alle regole dei giornali: poesie, prose, scene teatrali, frammenti, scritti tra il 1924 e il 1933 con grafia minutissima su fogli volanti, buste, moduli, ricevute, telegrammi, cartoline, calendari, perfino sui già striminziti biglietti da visita. Sono gli ultimi capitoli del destino del nomadismo letterario di Walser. Non tutti i brani vantano una compiutezza di senso e di buona stesura grafica, sebbene, visivamente, abbiano il fascino dei geroglifici se non, addirittura, di un sistema di cifratura crittografica, ma non per indicare l’ammutolimento dello scrittore elvetico.
Sembrerebbe invece più una sfida a dire tutto senza vincoli o restrizioni mentali, un patrimonio di scritti accessibili solo a lui, uno spazio protetto dove le parole appaiono segregate in un rifugio fuori dal tempo e lontano dagli altri, divenuti ormai inarrivabili. Con questo travestimento calligrafico la sua smania vagabonda ora trova sfogo solo nelle parole e nelle lande del sapere. Brevi prose e un numero maggiore di poesie («Di pezzo in pezzo io guizzo, di prosa in prosa/ con la qual cosa metto a tacere quel che un tempo ero.../....finché non m’inchino davanti al corso strano del mio stesso destino...») compongono questo magnifico mosaico dove, segnala Giusi Drago, con la matita «scrivere è più dolce e impermanente, quindi più adatto a seguire i labili fili delle associazioni di parole, cioè più vicino all’impazienza nei confronti della stabilità del significato». «Si è presi da una mano ignota,/ a che pro imbronciarsi, se proprio così/ doveva girare la ruota?». E se «Alla fine sembra (quasi che) niente sia accaduto».
Questa la sintesi poetica di Walser. Il quale ci sorprende ancora una volta con queste partiture grafiche, che non hanno l’impronta della follia, come nel caso di Artaud, che durante i suoi ricoveri scriveva lettere deliranti. Anche se, ci avverte la traduttrice, con questi microgrammi la difficoltà consiste nel trovare l’unità di senso e definire la fine di un testo e l’inizio del successivo. L’impresa, comunque, ci pare riuscita.