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Hannah Arendt, l’identità ebraica e la banalità del male

Un saggio raccoglie i testi che rivelano il suo impegno per la libertà del suo popolo
di Vito Punzi martedì 2 dicembre 2025

3' di lettura

Il destino della filosofa ebreo-tedesca Hannah Arendt (1906-1975), dopo la pubblicazione nel 1963 di La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, ovvero il suo reportage sul processo al gerarca nazista, svoltosi in Israele un anno prima, è quello di essere chiamata anch’essa, spesso da studiosi con la sua stessa origine, al banco degli imputati. Nel 2011 era stata Deborah Lipstadt, ebrea statunitense, a sostenere, con Il processo Eichmann (Einaudi 2014), che Arendt, con i suoi resoconti e ragionamenti intorno alla “banalità del male”, avesse costruito «una versione dell’Olocausto in cui l’antisemitismo ha un ruolo minoritario». Con la definizione di “banalità del male”, secondo i suoi critici, Arendt avrebbe mirato alla banalizzazione del crimine. In realtà, come essa stessa scrisse rispondendo a Gershom Scholem che l’accusò di aver creato uno “slogan”, secondo lei «il male è sempre e solo estremo, non “radicale”, e le motivazioni che spingono al male non vanno ricercate sul piano del profondo e del demoniaco. Esso può invadere tutto e devastare il mondo intero, precisamente perché si propaga in superficie come un fungo. Solo il bene haprofonditàe può essere radicale». In questo senso l’aver fatto di Eichmann un “mostro”, l’averlo posto sul banco degli imputati con intenti con non erano solo giuridici (affrancare il popolo ebraico dal ruolo di vittima), per Arendt rappresentò una commistione non salutare tra politica e giustizia.

I detrattori della filosofa, prima di emettere sentenze, avrebbero dovuto prestare attenzione anche agli scritti arendtiani riguardanti la condizione e il destino del suo popolo, precedenti il suo reportage sul processo Eichmann. La posizione di Arendt rispetto alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina è stata chiara fin dal 1940, quando era ancora in Francia: di fronte alla minaccia delle deportazioni, meglio sarebbe stata, una volta sconfitto il nazismo, la creazione di un’unione di Stati al cui interno gli ebrei potessero godere del riconoscimento di minoranza nazionale e di una rappresentanza in un parlamento europeo. Appena giunta da esule negli Usa, nel 1941, la sua riflessione e il suo agire a supporto del proprio popolo assunse la forma di contributi brevi per Aufbau, il giornale pubblicato a New York dal German Jewish Club per gli emigrati ebreo-tedeschi. Scelti tra quelli più importanti (la collaborazione durò fino al 1945) da Marie Luise Knott e editi ora per la prima volta in Italia (H. Arendt, Antisemitismo e identità ebraica, trad. G. Rotta, Einaudi 2025, p, 200, € 21,00), si tratta di testi che la rivelano come una testimone vigile dei tempi e come una donna impegnata della lotta per la libertà ebraica. Si tratta di un’impressionante testimonianza storica, ma anche di uno straordinario documento di pensiero e scrittura coraggiosi.

Nella persecuzione degli ebrei da parte del Terzo Reich, Arendt vedeva la conseguenza fatale dei due “comportamenti sbagliati”, propri del loro passato: le speranze di assimilazione da un lato e la fede in un’elezione riservata al popolo ebraico dall'altro. Per Arendt tutto ruotava intorno a due nodi all’epoca ancora irrisolti: l’acquisizione dell’autonomia politica e la costruzione di un esercito ebraico. E non era possibile affrontare tali nodi senza prendere una posizione rispetto al sionismo. A questo proposito, ciò che emerge dagli scritti per “Aufbau”, lo rimarca Enzo Traverso nellaprefazione, è una vicinanza “strumentale” di Arendt, cioè si trattava della «leva necessaria per combattere l’antisemitismo negli anni della persecuzione nazista». Venuta meno quella, il sionismo si sarebbe trasformato in «un vicolo cieco foriero di nuove tragedie». Ciò perché, secondo Arendt, il sionismo si nutriva di miti, tra i quali l’idea di una «elezione del popolo ebraico». Un’idea particolarmente pericolosa, nella sua versione religiosa, ma anche in quella secolarizzata, perché destinata a diventare una variante della «superstizione della razza». Infine, si segnala il saggio breve Si può risolvere la questione ebraico-araba? pubblicato nel 1943. È qui che la filosofa offre ipotesi (uno Stato binazionale, una Federazione sul modello degli Usa) che potrebbero tornare utili per i diplomatici impegnati nella ricerca di una soluzione giusta e affidabile nel tempo.

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