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Il nuovo World Trade Centersupera l'Empire State Building

Orgoglio Usa: l'edificio è di nuovo il più alto della città. E il dissidente cieco cinese Chen Guancheng è nell'ambasciata Usa

Matteo Legnani
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Oggi si può essere orgogliosi di essere newyorkesi, due volte. E' il giorno in cui finalmente la Torre al World Trade Center, che rimpiazzerà le due crollate sotto l'attacco del 2011 di Al Qaeda, supera per altezza l'Empire State Building e torna ad essere il grattacielo più alto della città. Quando sarà completato con i suoi 105 piani e con la cima appuntita che sarà il simbolo della Skyline di Manhattan per i decenni a venire, l'edificio sarà il più alto degli Stati Uniti e tra i più alti al mondo. Che il traguardo in altezza odierno cada nella settimana del primo anniversario della eliminazione di Osama bin Laden rafforza la soddisfazione per tutti gli americani che vissero quel giorno per quello che era: un atto di guerra a cui è stato giusto rispondere con la decisione che aveva caratterizzato la politica anti terrore di George Bush, e che Obama ha ereditato e completato, almeno per la parte che riguardava la punizione del killer di 3000 innocenti. Ma c'è un altro fatto che sta facendo inorgoglire gli americani oggi. E' la notizia ormai semiufficiale, pur nel silenzio delle autorità di Pechino e di Washington, che il dissidente cieco Chen Guangcheng è nell'ambasciata Usa della capitale cinese, dove ha chiesto protezione dopo la sua fuga dagli arresti. La sua vicenda è una bella pagina della resistenza degli attivisti per i diritti umani e civili cinesi contro le repressioni del regime. Dopo 4 anni di galera per aver denunciato la politica del governo che imponeva un solo figlio a famiglia con la drastica riduzione del numero delle femmine (e il problema anagrafico creato da questa barbara ingegneria sociale comunista sta peraltro esplodendo con gravi ripercussioni socio-economiche) Chen era finito agli arresti domiciliari. Con l' aiuto di un network di attivisti per i diritti umani e di dissidenti, è riuscito a scappar via una notte, scalando un muro, e attendendo per un giorno nascosto finchè l'attivista He Peirong non è passato a prenderlo per portarlo in auto a Pechino, distante 450 chilometri. In città ha vissuto di nascondiglio in nascondiglio, sempre protetto dalla rete di dissidenti. I quali, alla fine, hanno pensato che il posto più sicuro per Chen fosse l'ambasciata americana. Gli Usa, insomma, come rifugio di ultima istanza per chi aspira alla libertà.  Per Obama, ora, si apre una questione che avrebbe volentieri evitato. Decidere cioè come rispondere alle pressioni che gli verranno dalle autorità comuniste cinesi di “restituire” Chen al proprio paese. Facendolo tornare agli arresti domiciliari e anzi, quasi sicuramente, in una prigione di sicurezza. La moglie, che con la figlia era rimasta a casa per far credere che tutto fosse normale, cioè  che il marito fosse sempre con lei, è già ora sparita dalla circolazione per mano della polizia, e così è stato per altri parenti e amici di Chen. Fra soli tre giorni Hillary Clinton sarà a Pechino per il previsto meeting del Dialogo Strategico ed Economico Usa-Cina, e un sottosegretario, Kurt Campbell,  l'ha preceduta per intavolare trattative con il governo cinese sulla sorte di Chen e dei suoi famigliari. Ma è Obama che avrà l'ultima parola. Starà a lui cogliere l'occasione per mostrare ai cinesi e al mondo che l'America difende la libertà di pensiero, e tutti quelli che si battono per farla rispettare nel proprio paese, come Chen. Ma essendo un anno elettorale il presidente terrà conto dei pro e dei contro anche in quella chiave. Accettare il diktat di Pechino, sacrificando un eroe simbolico, per avere buone relazioni con un regime di cui Washington ha bisogno all'Onu su Iran e Siria? Il Gop di Mitt Romney, che già critica Obama troppo tenero con Pechino su valuta e pirateria economica, avrebbe il più forte degli argomenti ideali nel denunciare Obama come succubo della Cina. Oppure il presidente, che è già un premio Nobel della Pace gratis, difenderà a spada tratta Chen, un dissidente che, come altri prima di lui, per avere il Nobel della Pace dovrà sudarselo con chissà quanti altri anni di galera, e non è detto che l'avrà mai. L'ambasciata Usa quale indirizzo preferito dei dissidenti pro libertà nel mondo è motivo di orgoglio per gli americani. Sta a Barack non distruggere questa alta fama. Fosse anche per motivi elettorali spiccioli, speriamo che non svenda Chen.  Glauco Maggi             

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