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Sicuri che la 'fuga dei cervelli' sia un tradimento all'Italia?

Scorrete le biografie del governo Monti: una bella percentuale di ministri ha studiato e vissuto negli Stati Uniti

Andrea Tempestini
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In Italia il fenomeno degli studenti che vanno all'estero a prendere una laurea o una specializzazione è definito “la fuga dei cervelli”, visto che molti poi si fermano, soprattutto negli Stati Uniti. Avendo fatto studiare (a spese dei contribuenti, anzi a carico del debito pubblico) i suoi figli dalle elementari alla maturità, il Paese “mamma” vive come un tradimento questo esodo. Il tono usato nelle denunce del Palazzo è sempre stato protezionista, almeno finora. Adesso che c'è il governo Monti dove, a scorrere le biografie, si scopre che una bella percentuale di ministri ha studiato, insegnato, visitato, frequentato università internazionali (con netta prevalenza negli Usa) sarà finalmente ora di guardare all'estero con occhio da terzo millennio? E di abbandonare quella sostanziale negazione della realtà attuale nel mondo dell'istruzione – fatta di affari, di ricerca, di innovazione – che ha informato l'approccio statalista, nazionalista, antibusiness, antiprofitto, antimeritocratico dominante nella nostra accademia, dalle baronie di tante università giù giù fino alle occupazioni rituali degli eterni contestatori delle medie superiori? Tutti d'accordo nella insostituibilità del sistema pubblico politicamente gestito, tutti legati da un filo rosso che ha imbrigliato dal '68 in poi la cultura del nostro sistema universitario. Da cui molte delle eccellenze che esistono fuggono, appunto. Non a caso, nelle classifiche mondiali le nostre istituzioni sembrano le squadre della Bielorussia in Champions League. Ci vuole un “business plan”, e il nostro gabinetto, che potrebbe anche tenere i suoi consigli dei ministri in inglese dato il loro background, di sicuro sa come fare. Basta un decreto di una riga: “L'istruzione universitaria è un business, e come tale va gestita.”  Lo sanno bene negli Usa, e se dalle università di qui escono più Nobel che da qualunque altra parte è perché vi domina una visione “industriale”. In questi giorni si tiene in America la “International Education Week (November 14-18)” , la settimana dell'educazione internazionale, che è l'occasione per fare il punto sui progressi e sugli obiettivi delle istituzioni accademiche. Il Foreign Press Center, braccio del Dipartimento di Stato che fa da supporto ai giornalisti stranieri che risiedono qui, ha mandato un comunicato da cui emerge la filosofia americana sul tema. “La educazione universitaria di alto livello è il quinto settore industriale nel campo dei servizi degli Stati Uniti, e per mantenere la sua eccellenza, rimanere altamente competitivo e preparare dei cittadini globali, i colleges e le università americane si rivolgono all'estero per partnership nei campi della ricerca e dello sviluppo, dell'insegnamento e delle collaborazioni in aula, e dei programmi innovativi di scambio degli studenti”, scrive il FPC. Segue una serie di dati e numeri sugli scambi di studenti da e verso gli Usa che sembra il rapporto dell'import ed export del vino o delle automobili. E traspare che più alte sono le cifre, meglio è. Così, secondo l'Institute of International Education (IIE), (fondato nel 1919, quando l'Italia scopriva l'autarchia), 270604 studenti americani hanno studiato all'estero nel 2009-2010, il 4% in più dell'anno prima. In due decenni, la cifra è più che triplicata. “Per gli studenti americani è criticamente importante l'esperienza internazionale al fine di essere competitivi nel mondo globalizzato di oggi”, sostiene Ann Stock, assistente del segretario di stato Hillary Clinton per gli affari della cultura e dell'educazione. “I giovani studenti che studiano all'estero guadagnano la preparazione necessaria per creare le soluzioni alle sfide del 21esimo secolo”. Gran Bretagna, Italia, Spagna, Francia e Cina sono le mete preferite, ma la curiosità degli americani si sta ampliando: 15 delle prime 25 destinazioni sono paesi fuori dall'Europa occidentale e 19 sono paesi non di lingua inglese. Insomma l'America si sprovincializza e considera un arricchimento le trasferte dei suoi figli, anche se ha un parco di università di primissima qualità. In un prossimo Diario parleremo delle iniziative dei maggiori colleges per espandere la loro influenza fuori America, ma sempre continuando ad attrarre talenti esteri in patria. di Glauco Maggi Twitter@glaucomaggi

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