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Obama sta con Israele, ma solo a parole

Il presidente Usa rassicura Netanyahu: "Vi difenderemo sempre". Ma a novembre si vota e una guerra in Iran non gli conviene...

Giulio Bucchi
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Apparentemente le ultime 48 ore hanno mostrato al mondo due leader che più d'accordo di così, tra loro, non potrebbero essere, il presidente americano e il primo ministro israeliano. Con discorsi separati all'Aipac (American Israel Public Affairs Committee, la maggiore organizzazione degli ebrei americani), colloqui privati alla Casa Bianca, conferenza stampa a due voci con stretta di mano finale davanti alle telecamere, Barack Obama e Benjamin Netanyahu hanno usato le stesse parole sulla questione d'interesse comune, la corsa del regime iraniano alla bomba nucleare: “Israele ha il diritto sovrano di prendere le proprie decisioni per difendere se stesso”, hanno detto entrambi. E Obama non ha esitato, dopo la frase rituale “crediamo che ci sia ancora una finestra aperta per una soluzione diplomatica”, nel ricordare che “tutte le opzioni sono sul tavolo, e quando dico tutte le opzioni intendo proprio quello che dico”. Teheran sa che “il presidente degli Stati Uniti non bluffa”, aveva detto già sabato Obama. E ha ancora ripetuto davanti ai giornalisti lunedì: “Il nostro impegno per la sicurezza di Israele è solido come una roccia. Gli Usa saranno sempre con Israele quando la questione è la sicurezza di Israele”. Si può essere più chiari di così? A parole, no. Sembra di sentire George Bush quando Obama dice che la sua linea non è di “contenere” Teheran, cioè di lasciare che Ahmadinejad costruisca il suo ordigno e poi gestire la convivenza con un paese nucleare in più, oltre a quelli che già ci sono, con la politica del “contenimento”. La posizione di Obama, stando alle sue parole, sarebbe quella di “prevenire il regime iraniano dall'ottenere la bomba”, dove “prevenire” suona, anzi è, la stessa espressione alla base della allora deprecatissima “guerra preventiva” scatenata dal presidente repubblicano contro Saddam Hussein. Poi si scoprì che il dittatore di Baghdad bluffava sulle armi di distruzioni di massa e sui piani nucleari, anche se tutta la comunità dei servizi segreti occidentali ed anche i leader democratici nel Congresso Usa (Kerry, Clinton eccetera) ne erano convinti. Teheran invece non bluffa e lo sa bene anche Obama. Lunedì  il capo della agenzia nucleare della Nazioni Unite, Yukio Amana, ha detto a Vienna di essere “seriamente preoccupato” dalle recenti attività nella installazione militare iraniana di Parchin. Sono sempre più evidenti, infatti, gli sviluppi nella preparazione di vettori e altri equipaggiamenti bellici in grado di utilizzare il materiale nucleare che, si sa, in altre centrali Teheran sta accumulando con l'arricchimento dell'uranio. E allora, perché essere diffidenti sulle intenzioni reali dietro le parole ferme di Obama? A parte la storia precedente dei ripetuti strappi tra i due leader (la richiesta del ritorno ai confini della guerra lampo del 1967 e lo stop agli insediamenti israeliani come condizione chiesta a Tel Aviv da Barack per rabbonire Hamas e Al Fatah, missione impossibile) , sono gli orologi dei due leader a non essere sintonizzati. Netanyahu guarda al concreto, sa che il tempo gioca per l'Iran e non vuole correre il rischio di superare il punto di non ritorno. Quello in cui, arricchito sufficiente uranio, Teheran ha la capacità di rendere nucleari i suoi missili. E' il suo calendario, e secondo i suoi calcoli non può andare oltre la primavera. Obama ha un'altra agenda. Il suo traguardo è il primo martedì di novembre quando cercherà il bis alle urne, e per presentarsi all'appuntamento con le migliori chance non vuole che nella seconda metà del 2012 l'economia del mondo sia sconvolta da un conflitto regionale in Medio Oriente, che porterebbe ad una crisi petrolifera e all'esplodere del prezzo della benzina anche negli Usa. Ovviamente, con coda del rallentamento della ripresa economica Usa e globale, e ciò sarebbe una calamità per le sue speranze. D'altra parte, Obama ha anche un gran bisogno dei finanziamenti e dei voti della comunità ebraica, che possono essere decisivi negli stati ballerini, primo fra tutti la Florida. Di qui la retorica bellicosa pro Israele in pubblico, mentre in privato Obama ha sicuramente chiesto, anzo pressato, Netanyahu a rimandare l'attacco, a credere nelle sanzioni. Insomma Barack vuole la botte piena e la moglie ubriaca, ma la chiave della cantina è in mano al governo israeliano. di Glauco Maggi twitter@glaucomaggi  

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