Romney vince, ma non è la prima scelta

Giulio Bucchi

Con la vittoria larga nello stato obamiano delle Hawaii, (45% contro 25% per  Santorum e 11% per Gingrich) Mitt Romney si è un po’ salvato la faccia nell’atteso  martedì  elettorale che ha incoronato definitivamente Rick Santorum quale portabandiera dei conservatori, cristiani, pro vita, tea party, insomma con la fetta pura e dura del partito. Vincere sia in Alabama (con 35% contro 29% di Romney e Gingrich) sia in Mississippi (con 33% contro 31% di Gingrich e 30% di Romney) consente a Santorum di reclamare la titolarità di sfidante conservatore di Romney. Infatti, l’ex senatore della Pennsylvania ha subito chiesto, dopo i risultati, che Gingrich abbandoni la gara e permetta al popolo dei conservatori di unificarsi in un solo candidato, lui stesso. Ma Gingrich, anche se ha perso nel suo Sud contro un “nordista”, insiste nel racimolare delegati (ne ha circa 140 ora) e nel volerli portare alla convention d’agosto a Tampa (Florida). Il suo calcolo è che per allora Romney non avrà raccolto i 1144 rappresentanti che gli darebbero la sicurezza matematica della maggioranza, e che la designazione del nominato avverrà quindi attraverso trattative tra blocchi. E’ una speranza molto tenue, dicono i numeri che diamo più avanti, ma soprattutto è una strategia suicida per il GOP, perché il nominato sarebbe politicamente indebolito dal non avere la benedizione popolare, e inoltre avrebbe solo due mesi di tempo per attaccare i punti deboli di Obama. La realtà è che di questa situazione si stanno rendendo conto ormai quasi tutti i notabili del GOP, ma anche gli attivisti più conservatori che non hanno Romney come prima scelta. Ieri sera il vostro cronista era ad un incontro di iscritti e simpatizzanti repubblicani con varie preferenze, da Romney a Santorum a Ron Paul: tutti dicevano che alla fine il nominato sarà Romney, e tutti erano al 100% già decisi nel votarlo. L’attuale fase elettorale, insomma, rispecchia il meccanismo escogitato per la selezione, un meccanismo che provoca due effetti, uno concreto e uno mediatico. Sotto quest’ultimo aspetto, i colpi di scena si sono susseguiti e hanno reso la corsa interessante, con leader alternati e vincitori di tappe, alcuni a sorpresa. Ma sono i numeri dei delegati conquistati che contano, e la classifica dice Romney. Sui 1144 voti necessari ne ha 495, e gliene mancano circa il 48% di quelli ancora da assegnare. Santorum ne ha messi insieme circa 240, meno della metà, e dovrebbe assicurarsi i due terzi circa di quelli che mancano. Gingrich e Paul sono ancora più staccati e senza speranze matematiche. Ogni Stato ha regole proprie nel distribuire i vincitori dei caucus e delle primarie, e in quelli in cui chi arriva primo prende tutto (come fu in Florida a favore di Romney) è Mitt ad apparire in vantaggio. Negli Stati dove la distribuzione è proporzionale (più o meno, le tecniche sono più complesse quando coinvolgono contee e distretti )  Romney continuerà a intascare comunque delegati anche se non vince. Per esempio ieri, in una giornata dove tutti i titoli dei giornali sono andati giustamente a Santorum, a conti fatti, ossia considerando gli esiti in Mississippi, Alabama, Hawaii e American Samoa (un territorio Usa) quello che ha preso più delegati è stato ancora Mitt, con 42, rispetto a 35 per Santorum, 24 per Gingrich, 1 per Paul. Insomma, se vince anche quando perde, come può non essere Romney il nominato? di Glauco Maggi twitter @glaucomaggi