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Ecco cosa vuole Mister Fiat

Ricerca in Brasile e nuovi modelli negli Usa: l'Italia manterrà il polo del lusso ma il resto sarà tutto da negoziare

Lucia Esposito
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  Ugo Bertone Fabbrica Italia è stata seppellita un anno fa. È nell'ottobre del 2011 che, per la prima volta,  Sergio Marchionne fece sapere che il piano da 20 miliardi di investimenti per produrre in Italia un millione 400 mila vetture destinate a mezzo mondo (compresi 300 mila pezzi da vendere in Usa) era finito nel cassetto. Allora, per la verità,  la sortita del ceo di Fiat e, sempre di più, di Chrysler, non fece troppa impressione, confusa com'era nell'ennesimo braccio di ferro con la Fiom. Ma da quel momento l'annuncio è stato ripetuto più volte: a da febbraio, quando il numero uno del Lingotto  parlò del concreto pericolo della chiusura di due impianti italiani, ad agosto quando, presentando a Torino l'unica novità Fiat del 2012, l'ad del gruppo si spinse a prevedere che la crisi dell'auto, la più dura da sempre, sarebbe andata avanti almeno fino al 2015. Poi, Cassandra Marchionne ha calcato ancor di più la mano: a Monti, che vede la luce in fondo al tunnel, ha risposto che, forse, sono i fanali del treno contro cui ci andremo a schiantare. La domanda Dati i precedenti, una domanda sorge legittima: perché la Fiat ha ritenuto di dover ribadire, a metà settembre,  che il cantiere di Fabbrica Italia è chiuso per sempre? Non era il caso di attendere il fatidico 30 ottobre quando, secondo lo stesso Marchionne, il quadro sarà abbastanza chiaro per annunciare il nuovo piano? Due le risposte possibili. Marchionne, che si definisce una «ciofeca» in comunicazione (almeno con i media italiani), ha  ritenuto che fosse necessaria una precisazione: nessun problema se Antonio Di Pietro o Maurizio Landini continuavano a far riferimento ad un piano bell'e sepolto. Ma, ad inquietare sono stati i riferimenti a Fabbrica Italia di  Matteo Renzi, uno che si dichiarava «marchionniano» fino a sei mesi  fa piuttosto che di Pierluigi Bersani. Guai a farsi coinvolgere in una corsa al rialzo, destinata per giunta a contagiare la fin troppo dinamica Elsa Fornero o Corrado Passera, ministro a caccia di un biglietto da visita vincente  per il passaggio da tecnico a politico. C'è da crederci? Difficile. Sergio Marchionne, che in questi mesi non si è preoccupato di dare un colpo di telefono al presidente degli industriali italiani Giorgio Squinzi («non lo conosce – ripete quest'ultimo - Se capiterà lo incontrerò volentieri»), non sembra così sensibile alla politica nostrana. Del resto,  parlando  con i giornalisti a Detroit venerdì scorso, non ha speso una parola sulle polemiche scoppiate in Italia dopo il comunicato su Fabbrica Italia, comprese le bordate al limite dell'insulto di Diego Della Valle, ma si è soffermato sul tema che di questi tempi più gli sta a cuore: l'ostruzionismo dei costruttori tedeschi nei confronti di un piano Ue per l'auto, sul modello di quello varato a suo tempo da Barack Obama.   La crisi europea I numeri sono tragici: quest'anno l'industria europea perderà 9 miliardi di euro; la sovracapacità produttiva si aggira sui due milioni di pezzi; soffrono, oltre a Fiat, Peugeot e Renault oltre ad Opel (proprietà Gm) e la Ford europea. Ma i big tedeschi, forti dei profitti in arrivo dalla Cina sono contrari a qualsiasi riduzione concordata della produzione. Intanto, come conferma Giorgio Giugiaro, numero uno dell'Italdesign controllata da Volkswagen, per ora è tramontata l'offerta di Wolfsburg per l'Alfa Romeo.  Fine di un amore? No, probabilmente i tedeschi pensano che domani si pagherà meno. In questo quadro, cupo, Marchionne ha messo le mani avanti: la Fiat non lascerà l'Italia ma detterà nuove condizioni. Di sicuro l'azienda si terrà ben stretto il polo del lusso, ovvero Ferrari, Maserati e la stessa Alfa destinata ad esser prodotta a Grugliasco ma soprattutto in Usa e in Giappone, in collaborazione con Mazda. Il resto? È tutto da negoziare. Alla base di Fabbrica Italia, del resto, c'era la scommessa di produrre e vendere  300 mila auto destinate al mercato Usa. Ma questo richiedeva un accordo a tutto campo sulla produttività, a partire dalla flessibilità nell'uso degli impianti, che ha stentato a tradursi in pratica. Nel frattempo, però, la concorrenza è aumentata: non solo in Serbia o in Polonia, dove Fiat già produce quel che sarebbe sufficiente a rifornire la rete in questi momenti di magra, ma anche nel Regno Unito dove i sindacati hanno accettato condizioni ben più onerose (impianti sui tre turni per 51 settimane, sabato a richiesta dell'azienda). Gli impianti italiani, ripeterà Marchionne a Passera, Fornero e ai sindacati, avranno un futuro se saranno in grado di fornire a prezzi competitivi e nei tempi richiesti  le auto da vendere oltre Oceano. Altrimenti, non resta che aspettare , lasciando che il conto lo paghi la cassa integrazione. E i nuovi modelli? Le aziende, risponderà Marchionne, non falliscono per gli investimenti mancati, bensì per quelli sbagliati. Chiedere a Peugeot per conferma. Intanto Chrysler si accinge a dare il via a più di 60 nuovi modelli di qui al 2015; la ricerca concentra i suoi sforzi tra Betìm e Belo Horizonte, in Brasile. I fornitori di componenti fanno la spola da Kragujevaca, Serbia, a Tichy, Polonia, in attesa di mettersi al lavoro dalle parti di San Pietroburgo. Il piano B, alternativo a Fabbrica Italia, è partito. Speriamo che, per l'Italia,  esista almeno un piano C.  

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