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Pensioni, il governo taglia gli assegni: chi ci rimette e quanti soldi perde

Sandro Iacometti
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Proviamo a fare il conto. Ci sono 100 miliardi stanziati con i vari decreti cura Italia, Rilancio e Agosto, 40 miliardi di manovra e 37 del Mes. Al malloppo bisogna poi aggiungere i 209 del Recovery fund. Dote quantomai incerta, che il governo, però, conta di avere già in tasca. Al punto che 15 miliardi del futuro bottino sono già stati inseriti in finanziaria. Il totale fa circa 370 miliardi, una montagna di quattrini. Ebbene, è difficile da credere, ma da tale bendidio sembra che non riescano ad uscir fuori tre miliardi, per di più spalmati da qui al 2023, per evitare l'ennesima stangata sui pensionati. Facciamo un passo indietro. Con la riforma Dini del 1995, sempre nel nome del contenimento complessivo della spesa, si è stabilito che per calcolare la rivalutazione del montante contributivo che alimenterà il vitalizio o una parte di esso (per chi ha versamenti prima del 1996 e si trova nel sistema misto), bisogna agganciare il tasso di capitalizzazione alla media del prodotto interno lordo degli ultimi cinque anni. In pratica, più il Pil sale, più l'ammontare dei versamenti previdenziali lievita, più cala, più si assottiglia. Il meccanismo non fa una grinza finché il Paese cresce, ma inizia a perdere colpi quando l'economia arranca. Eh già, perché se il Pil va sottozero la rivalutazione non solo si azzera, ma può anche diventare negativa. In altre parole, si perdono i propri soldi e si rischia di avere una brutta sopresa al momento di andare in pensione.

 

 

 

Rivalutazione - La circostanza si è verificata nel 2014, quando, complice la crisi del 2009, è arrivato il primo coefficiente di rivalutazione col segno meno davanti. Per evitare impopolari sforbiciate agli assegni previdenziali, l'allora premier Matteo Renzi, nel 2015, decise di cambiare le regole. Il decreto Poletti sbianchettò la variazione sgradita e mise un bell'uno al suo posto: niente guadagno, niente perdita. Il montante resta uguale. Tutto risolto? Non proprio. Chi è andato in pensione negli anni immediatamente successivi alla norma ha evitato il salasso. Ma l'ammanco dovrà comunque essere recuperato con future decurtazioni compensative del tasso di rivalutazione. Da allora l'utilizzo della clausola di salvaguardia per sterilizzare (e posticipare) gli effetti della recessione non si è più reso necessario. Il Pil è rimasto sempre sopra lo zero e il montante contributivo, seppure di poco, ha continuato a rivalutarsi. Il problema si pone ora. Le stime della crescita per quest' anno parlando di una flessione di circa il 10%, punto più punto meno. Un crollo che non potrà non influenzare tutte le medie quinquennali dei prossimi anni, a partire da quella che dovrà essere calcolata nel 2021 per chi va in pensione nel 2023 (gli ultimi 12 mesi di contributi non sono soggetti a rivalutazione). Le conseguenze non saranno indolori. Nel caso di pensioni interamente contributive la riduzione del capitale versato negli anni dal lavoratore comporta un taglio degli assegni di circa il 2,5%. In soldoni significa che una pensione di 1.000 euro lordi mensili può subire un decremento annuo di 325 euro, una di 4.000 arriva fino a 1.300 l'anno. Nel caso di pensione mista, con una quota retributiva, la diminuzione sarà di 221 l'anno euro per un assegno lordo di 1.000 euro e di 884 per un trattamento da 4.000 euro al mese.

Toppa - È per questo motivo che qualche giorno fa la ministra del Lavoro Nunzio Catalfo ha annunciato, durante un incontro coi sindacati, che anche in questo caso gli effetti negativi sulle pensioni della mancata crescita sarebbero stati annullati per via legislativa. Per mettere una toppa, al lordo degli effetti fiscali, servirebbero dai 2,5 ai 3 miliardi. Troppi a giudizio del ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, che ha incaricato i suoi tecnici di valutare l'effettiva necessità di intervenire subito. Il risultato, secondo quanto riportato ieri dal Sole 24 Ore, è che l'intervento sarà rinviato almeno di un anno. «Stop gravissimo», ha tuonato il segretario confederale Uil, Domenico Proietti, «si preparano ad usare il bancomat sui futuri pensionati». Lo slittamento, in effetti, non preannuncia nulla di buono. Anche perché nel 2022 si dovrà pure sciogliere il nodo della fine della sperimentazione di Quota 100, operazione che non sarà a costo zero. Per i lavoratori vicini alla quiescienza si tratta della seconda batosta in pochi mesi. Lo scorso giugno, infatti, è stato rivisto al ribasso anche il coefficiente di trasformazione, il numerino che tramuta il montante contributivo nell'assegno mensile, con riduzioni scaglionate in base all'anno di età dallo 0,33 allo 0,47%.

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