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Investimenti da valorizzare sulle concessioni balneari

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Antonio Mastrapasqua
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L’agenzia Ansa titolava pochi giorni fa: dallo smart working ai balneari, a proposito del decreto Milleproroghe 2023 convertito in legge. Se Di Pietro fosse stato ancora un protagonista del circo politico-mediatico avremmo potuto echeggiare la domanda: che c’azzecca? Nulla, ovviamente. Ma è dal 2001 che abbiamo fatto l’abitudine con questa aberrazione, che smentisce una delle caratteristiche che la Corte costituzionale ha considerato essenziali per poter disporre un decreto legge: l’omogeneità delle materie indicate nel provvedimento.
C’è un motivo se tra le tante materie contenute nel Milleproroghe 2023 l’attenzione si è fissata sul tema dei balneari: e non è solo la reprimenda del Capo dello Stato.

 

 


Le concessioni balneari, per un Paese che ha i tre quarti dei confini segnati dal ma re, non sono poca cosa. In termini economici innanzitutto: secondo Nomisma, a fronte di circa 30mila concessioni, sono più di 6500 gli stabilimenti balneari registrati, con circa 60mila addetti e un fatturato complessivo di circa 2 miliardi. E ovviamente parliamo del fatturato emerso. Il nero? Per esperienza comune c’è. E fa lievitare il peso economico di un settore che, per motivi non chiarissimi, dovrebbe restare sottratto alla libera concorrenza. Per dovere di chiarezza il problema non è emerso con il governo Meloni, ma ce lo trasciniamo da tempo. Di certo una parte del centrodestra si è appuntata sul petto – chissà perché? – la medaglia di difensore dei gestori degli stabilimenti balneari. Qui la concorrenza non passa. Forse per preservare il ristoranti no tutto italiano, che se finito nelle mani degli odiati francesi, invece dello spaghetti no alle vongole ci avrebbe ammannito le “moules à la crème” (cozze con la panna)? Sembra poca cosa. O investimenti per garantire gli fatti? Facile fare quantificazioni, dove gli investimenti sono stati fatti veramente. Il mercato serve anche per questo, per valorizzare gli esercizi commerciali di qualità. L’avviamento. Il problema è che molte delle concessioni balneari, in forza della assenza di concorrenza, hanno coinciso con l’offerta peggiore al prezzo più alto. Strana condizione quella dell’Europa.

 

A intermittenza evocata come orizzonte obbligatorio contro il nanismo del proprio “particulare” (per citare Guicciardini) oppure come nemica delle differenze. Omologatrice per conto dei Paesi del Nord, o perequatrice nelle diseguaglianze? Vero è che la trazione europea è spesso lontana dai problemi del Mediterraneo ma delle due l’una: o la vogliamo madre o diventa matrigna. Il tema dei balneari si accompagna a quello degli ambulanti, dove ahimé sappiamo quanto spesso si annidi l’interesse del malaffare organizzato. La concorrenza non è sempre una medicina, ma offre spesso un antidoto alla criminalità che considera troppi territori fuori dalla sovranità dello Stato. E lo Stato non può accettarlo, in nome di deboli difese di presunta italianità e di microimprese incapaci di stare sul mercato. Il presidente Mattarella ha fatto bene a rammentare il rischio di una procedura d’infrazione? Non so. Avrebbe anche potuto non controfirmare il Milleproroghe. Di fatto la questione economica e quella di diritto europeo, si incrocia con quello sociale e di sostenibilità ambientale: le concessioni non possono trasformarsi in titoli di proprietà, impedendo l’accesso a mare a chi preferisce una vacanza meno strutturata e con servizi meno organizzati. Prima ancora del diritto-dovere di essere europei, qui vale il principio della libertà personale. Non negoziabile.

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