Ricchi, ricchissimi... praticamente in mutande. Non esiste sintesi migliore del titolo della divertente commedia del 1982, con un cast mitologico che va da Banfi a Pozzetto fino a Pippo Franco e alla Fenech, per descrivere la clamorosa cantonata presa da opposizioni e sindacati sulle politiche fiscali del governo. Non solo da una settimana cercano di convincerci che chi guadagna dai 28mila ai 50mila euro lordi l’anno è un paperone, ma si sono anche dimenticati di tirare la linea alla fine del conto. Già, perché prima della manovra incriminata che contiene lo scandaloso aumento dell’1% del reddito a chi riesce aportare a casa, rimboccandosi le maniche tutti i giorni, circa 2.500 euro, ce ne sono state altre tre che hanno avuto obiettivi e risultati che solo raccontando balle a valanga la sinistra può far finta di non condividere.
Dal conteggio finale, infatti, emerge che i presunti vantaggi fiscali concessi dal centrodestra ai ricchi hanno consentito di sostenere le mazzate rifilate dall’inflazione negli anni scorsi non a chi incassa 200mila o 100mila euro, e neppure a chi viaggia sui 50 o sui 40mila. Il beneficio fiscale complessivo delle manovre degli spietati liberisti al governo, tenetevi forte, ha premiato i redditi sotto i 32mila euro lordi all’anno. Ora, considerato che la prima aliquota Irpef del 23% è per i redditi fino a 28mila euro, sfidiamo chiunque a venirci a raccontare che stiamo parlando di ricchi. Come ha detto Giorgia Meloni, «serve coraggio per sostenerlo».
A fare il calcolo, ovviamente, non siamo stati noi di Libero, rozzi, sprovveduti e incolti come tutti i giornalisti che non passano le giornate a tirar su le barricate contro il governo. Ci mancherebbe altro. Per farci dare una mano a mettere ordine tra le palate di fandonie che circolano ci siamo affidati ad uno dei documenti che, guarda caso, negli ultimi giorni è passato un po’ sottotraccia.
Eppure, rispetto a Bankitalia e Istat, la cui principale preoccupazione è sembrata quella di sottolineare il peso degli aiuti ai “ricchi” contenuti nella finanziaria, l’Ufficio parlamentare di bilancio è l’unica tra le authority indipendenti che si è presa la briga di fare un’analisi sugli interventi fiscali non limitata all’oggi, ma estesa a tutte le manovre che negli ultimi anni hanno modificato l’Irpef (con 21 miliardi di tagli di tasse), fornendo anche un prezioso confronto con il regime pre riforma del 2021.
Ebbene, prima che Report scopra che il presidente dell’Upb Lilia Cavallari ha fatto un salto da Arianna Meloni qualche giorno prima dell’audizione in Parlamento, leggiamo qualche passaggio del voluminoso dossier illustrato davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato. Intanto, prima cosa che balza agli occhi, nell’elaborato della Cavallari non si parla di ricchi e di poveri, parole che non compaiono mai, ma di contribuenti con reddito elevato o basso.
Forse termini più consoni ad un ragionamento tecnico. La riforma sulle aliquote, spiega correttamente l’Upb, «si innesta su una serie di interventi che si sono susseguiti negli ultimi sei anni» e «un tratto peculiare di questo processo riguarda la traslazione nell’ambito della struttura dell’Irpef delle misure di sostegno al reddito dei lavoratori dipendenti introdotte per far fronte alla crisi inflazionistica del biennio 2022-2023». Insomma, stiamo parlando di aiuti ai contribuenti per fare fronte al carovita. Prima notizia: «Nel complesso, l’insieme di tali interventi ha accresciuto la progressività del prelievo». In altre parole, come piace a Landini & C, dopo la riforma chi ha di meno paga meno di prima e chi ha di più paga più di prima. Su questo punto, per convincere gli scettici e i professoroni di economia della sinistra, l’Upb ha tirato fuori dal cilindo cinque indici diversi (RE, RS, K, IPx100 e RR) . Il risultato è che «le riforme fiscali attuate nel periodo 2021-2026 hanno conferito all’Irpef una maggiore capacità redistributiva rispetto a quella dello scenario controfattuale di piena indicizzazione del sistema 2021».
Merito, udite udite, «dell’incremento della progressività determinato in larga misura dagli interventi a favore dei lavoratori dipendenti con redditi medio bassi». Perbacco. Qui già si vacilla un po’. Progressività, redistribuzione, redditi medio-bassi: roba da far andare in brodo di giuggiole persino Bonelli e Fratoianni. Ma andiamo avanti. In pratica l’Upb ha messo a confronto la tassazione uscita dalla riforma con quella che si sarebbe avuta se, ipotesi di scuola, avessimo mantenuto il vecchio regime indicizzando però il sistema all’inflazione che c’è stata nel periodo (praticamente applicando le aliquote sui redditi depurati dal minore potere di acquisto). In questo modo è possibile identificare quali fasce di contribuenti beneficiano di un alleggerimento del carico tributario superiore al recupero del drenaggio fiscale (ricordate il tormentone di Landini sul fiscal drag che deve essere restituito?).
Al termine di questa simulazione, l’unica che ci dà conto degli effetti reali al netto dell’inflazione, si scopre che per i redditi dei dipendenti fino a 32mila euro il confronto dà valori di imposta negativi (i contribuenti ci hanno guadagnato). Oltre questa soglia, invece, i lavoratori con l’aumento dei prezzi ci hanno perso qualcosa. A risultati più o meno simili, del resto, era arrivata Bankitalia. Al di là delle critiche sull’ultima manovra, anche via Nazionale aveva ammesso che tenendo conto del drenaggio fiscale (che è stato «più che compensato») a beneficiare delle misure tra il 2022 e il 2025 sono stati «i primi quattro quindi della distribuzione del reddito».