L'editoriale

Gli acrobati del Pd sfidano il ridicolo sul sistema elettorale

Nicoletta Orlandi Posti

  di Maurizio Belpietro Gli italiani di questi tempi sono alle prese con molti problemi, l’ultimo dei quali riguarda la legge elettorale. Tra tasse, posti di lavoro a rischio e rincari delle bollette di luce, acqua e gas, hanno ben altro da pensare che occuparsi  del Porcellum o del proporzionale alla tedesca. Anche perché il cinquanta per cento degli elettori dichiara di non sapere per chi votare e neppure se il 7 e 8 aprile si recherà alle urne. Ciò nonostante la vicenda del sistema con cui si sceglieranno deputati e senatori appassiona la classe politica, la quale da mesi discute della questione come se fosse decisiva ma senza riuscire a trovare un’intesa. Tutto ciò la dice lunga sulla possibilità di coloro che ci rappresentano in Parlamento di trovare soluzioni in tempi rapidi ai problemi concreti di questo paese: se gli onorevoli non sono neppure capaci di mettersi d’accordo sulle regole con cui devono essere eletti, figuratevi il resto. La discussione sta addirittura assumendo aspetti paradossali, in quanto ciò che fino a ieri veniva sostenuto con forza da una parte contro l’altra adesso viene ribaltato, in quanto,  essendo mutate le intenzioni di voto degli elettori,  alcuni partiti sentono di non avere più bisogno di una legge che dia loro un aiutino a vincere come invece pensavano fino a ieri. Un esempio di camaleontismo è dato ad esempio dal Pd, cioè da coloro i quali fino a poco tempo fa hanno avversato l’attuale legge, ritenendola una porcata (la definizione per la verità è del suo inventore, il leghista Roberto Calderoli). Il sistema in vigore è stato per anni criticatissimo e accusato di essere la causa di tutti i mali d’Italia, avendo consentito l’elezione di camerieri e ballerine. Per anni l’opposizione ha gridato allo scandalo, reclamando una nuova legge che restituisse agli italiani il diritto di scegliersi i deputati da spedire a Montecitorio. Invece delle liste bloccate si pretendeva il ritorno delle preferenze, ma con l’avvicinarsi del giorno del giudizio (degli elettori), mentre aumentano le possibilità che Bersani e compagni vincano, ecco accantonato il diritto di scelta degli italiani. Che il Pd sulla questione delle preferenze si fosse pentito (o meglio: che avesse cambiato idea per opportunismo) si era capito. Tuttavia se qualcuno avesse avuto dubbi ecco arrivare una bella lettera di Luciano Violante a rimettere le cose a posto. Sul Corriere di ieri, l’ex presidente della Camera  spiegava che le preferenze non vanno più bene, perché «in assenza di partiti fortemente strutturati premiano le persone già note e quelle che si possono procurare  mezzi finanziari». Capito? Prima senza preferenze erano le segreterie dei partiti a decidere chi far eleggere e dunque bisognava restituire la parola a chi vota. Adesso mancano segreterie forti e dunque è meglio evitare la crocetta sui nomi perché non si sa mai chi potrebbero scegliere i cittadini. Ancora più sorprendente l’acrobazia da kamasutra a proposito del premio di maggioranza: un’autentica inversione a «U» senza neppure averla segnalata con la freccia. Violante e il Pd sono eredi di un partito, il Pci, che i premi a chi ha più voti li ha sempre avversati: essendo minoranza non vedevano di buon occhio un sistema elettorale che premiasse la governabilità, assegnando al partito più forte un maggior numero di seggi rispetto ai voti. Ricordate la legge truffa? Così fu definita la norma voluta da Alcide De Gasperi per consentire all’esecutivo di essere messo in condizioni di operare.  Il Pci la contestò in tutti i modi, preferendo alla formazione di una solida maggioranza la rigida ripartizione dei risultati elettorali, con l’effetto di condannare il paese alle ammucchiate dei pentapartiti, oltre che ai governi balneari  e alle piccole o larghe intese. Anche quando con il Porcellum fu introdotto il premio elettorale alla Camera gli eredi di Togliatti storsero il naso temendo la fregatura. Ciò nonostante adesso che c’è aria di vittoria, da Bersani a Violante sono tutti per darsi il premio più ampio che si può. Il segretario del Partito democratico lo vorrebbe addirittura del 15 per cento, così da ottenere un numero di deputati e senatori che non richieda il soccorso di altri partiti. «È una scelta che privilegia la governabilità», spiegava ieri l’ex presidente della Camera sulle pagine del quotidiano di via Solferino, «Come in Francia. In momenti come questi governare è una priorità; e l’Italia non può rinunciare a un governo stabile».  Certo, come no. Noi che siamo sempre stati a favore del premio di maggioranza per permettere a chi arriva al trenta per cento di governare con il cinquanta per cento dei seggi non possiamo che essere d’accordo, ma al contrario di Violante e altri non siamo favorevoli a giorni alterni. Per noi il Paese non può rinunciare a un esecutivo stabile sia che a Palazzo Chigi regni un uomo del Pd, sia che alla presidenza del Consiglio ci sia Berlusconi o qualche altro. Non mi pare però che gli uomini cresciuti alla scuola di Botteghe Oscure facciano altrettanto. Una volta avremmo parlato di doppiezza togliattiana. Adesso ci limitiamo a registrare i voltafaccia bersaniani. Speriamo bene, cioè negli italiani, i quali, a prescindere dalle preferenze o dai premi, sanno dove sta la fregatura.