L'editoriale

I pericolosi adulatori dello spread

Nicoletta Orlandi Posti

di Maurizio Belpietro «Non bisogna concentrarsi sullo spread, credo ci sia un’eccessiva attenzione  verso questo indicatore». Chi lo ha detto? Berlusconi in preda a uno dei suoi sfoghi anti-tedeschi? Sbagliato, la frase è di Lucrezia Reichlin, docente della London Business School, ex direttore generale dell’ufficio studi della Banca centrale europea e attuale consigliere d’amministrazione di Unicredit: in pratica una testa d’uovo. La zarina rossa - così è stata soprannominata essendo figlia di Luciana Castellina e Alfredo Reichlin, due storici dirigenti comunisti -  nel mondo delle banche e degli investimenti è molto apprezzata e martedì è intervenuta sulla quotazione dei nostri titoli di Stato con argomenti che riecheggiano quelli usati dal Cavaliere.  Certo, la signora non ha detto come l’ex premier che lo spread è un imbroglio, ma ai microfoni del canale televisivo Cnbc, specializzato in servizi economici, pur usando parole più caute ha spiegato ciò che il Cavaliere l’altra mattina ha sintetizzato in maniera un po’ sbrigativa. Lo spread non è tutto, perché il differenziale fra i nostri titoli di Stato e quelli dei crucchi non è la sintesi della  salute del Paese. Per dirla con la professoressa i dati economici  bisogna guardarli bene, «non pensando solo alla speculazione ma anche alle condizioni dell’economia reale». Le quali, a giudicare dalle statistiche che mensilmente sforna l’Istat, non sono proprio buonissime, nonostante il presidente  del Consiglio dica a ogni incontro pubblico che il suo governo ha fatto molto per migliorarle. La disoccupazione, come è risaputo, in un anno ha sfiorato il 12 per cento. Il debito è cresciuto e anche il rapporto fra la montagna di miliardi che lo Stato si è fatto dare in prestito e il prodotto interno lordo è salito di tre punti. Tanto per non farci mancare nulla, qui a fianco potete poi leggere la lettera di Lamberto Dini sul fabbisogno finanziario del Paese. Secondo l’ex direttore generale della Banca d’Italia (ma il curriculum è lungo una spanna: ex direttore esecutivo per l’Europa del Sud per il Fondo monetario internazionale, ex ministro del Tesoro, ex presidente del Consiglio) le spese continuano ad essere superiori alle entrate e non è vero che sono diminuiti gli sprechi.  Insomma, mentre gli occhi sono concentrati sul saliscendi dello spread, l’Italia va in malora e l’uomo che osserva senza far nulla è pure portato in trionfo. È bastato che il Popolo della Libertà gli togliesse la fiducia e Silvio Berlusconi ne criticasse i risultati, che Mario Monti ha ricevuto l’endorsement (cioè l’appoggio) dei principali leader esteri, da Hollande alla Merkel. Il ministro dell’Economia tedesco, dopo che la sua capa aveva esortato gli italiani a scegliere bene alludendo al bocconiano, è addirittura entrato ancor più a gamba tesa nella tenzone elettorale, spiegando che il professore è meglio del suo predecessore. A parte le considerazioni ovvie che riguardano la sovranità del nostro Paese (che succederebbe se qualche leader politico estero si impicciasse degli affari tedeschi, precisando di preferire questo o quel leader, questo o quel partito?), tanto entusiasmo sembra un po’ sospetto. Anche perché, come detto, nonostante lo spread da quando c’è Monti si sia abbassato un poco (secondo noi merito di Mario Draghi più che del premier),  il resto è salito e l’unica cosa che insieme al differenziale scende è la produzione della fabbrica Italia.  Naturalmente le nostre osservazioni provocheranno le reazioni dei puristi, i quali si sono autonominati massimi custodi dello spread, ritenuto termometro unico per le rilevazioni della febbre del Paese.  Eppure vale la pena di ricordare che nei primi anni Novanta il differenziale dei titoli di Stato superò anche quota 600 sui Bund e allora, pur non essendo una situazione florida per l’Italia, nessuno sembrò accorgersi del pericoloso indice. Lo scarto fra i nostri Buoni e quelli tedeschi oscillò per un lungo periodo fra il 4 e il 5 per cento, interessi maggiori che noi dovevamo corrispondere a chi avesse intenzione di investire sui titoli emessi dalla Repubblica italiana. Oggi, con l’adozione dell’euro, lo spread invece non solo è diventato una parola comune, che anche i bimbi dell’asilo conoscono, come ci ha prontamente informato il nostro presidente del Consiglio, ma è il totem a cui ogni governo europeo si deve inchinare, forgiando su misura dell’indicatore finanziario le proprie politiche. Quanto ciò sia sano e soprattutto serva per far guarire i Paesi troppo indebitati, lo ha spiegato recentemente in un articolo sul New York Times uno dei più stimati e ascoltati premi Nobel. Secondo Paul Krugman la strada dell’austerity imposta dalla Merkel all’intera Europa è pericolosa, al punto che al professore i governanti del Vecchio Continente ricordano quei chirurghi che nel medioevo, per guarire i malati, usavano praticare i salassi: peccato che poi il  dissanguato passasse a miglior vita. Ma, ora che ci pensiamo, ci viene un sospetto: non sarà che pure Krugman è un irresponsabile come Berlusconi?