L'editoriale

La Sicilia paga più pensioni che stipendi

Andrea Tempestini

di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet Un anno fa, più o meno di questi tempi,  ci occupammo delle spese pazze della Regione Sicilia. Lo spunto ci venne fornito da un’inchiesta di Panorama che mise in luce gli sprechi dell’amministrazione guidata da Raffaele Lombardo, a cominciare dai quasi trentamila forestali contro i 600 in servizio in Lombardia, dove pure ci sono più boschi di quanti se ne trovino nell’isola. Il governatore siculo e diversi politici locali si lamentarono dei servizi, giudicandoli offensivi e minacciando querele. Sta di fatto che di lì a poco alla nostra denuncia si aggiunse quella del presidente degli industriali siciliani, il quale parlò di una regione tecnicamente fallita, senza soldi ma con tanti debiti. Come dicevamo, dalla pubblicazione di quegli articoli sono trascorsi quasi dodici mesi e diverse promesse del governo in carica e della giunta siciliana di rimettere mano alle spese, tagliandole. Purtroppo, nonostante gli annunci nulla è cambiato. O meglio, qualche cambiamento c’è stato, ma in peggio. Ancora una volta è il settimanale mondadoriano a riferirlo, tornando sul luogo del delitto  e indagando sui misteri di una regione che pur essendo sull’orlo della bancarotta prosegue imperterrita in usi e costumi che nel continente sono stati messi da parte da parecchio tempo. Lo scandalo riguarda soprattutto il sistema previdenziale dell’ente guidato da Rosario Crocetta, esponente del Partito democratico subentrato a Lombardo dopo le elezioni dello scorso anno. E che di scandalo si tratti non vi è il minimo dubbio, perché grazie alla possibilità di andare in pensione quando nel resto d’Italia si è costretti a restare al lavoro, in Sicilia i pensionati di Palazzo dei Normanni aumentano senza sosta, al punto che fra poco più di un anno il numero delle persone collocate a riposo e pagate dall’ente sarà superiore a quello dei dipendenti in servizio. Tra pensionati e lavoratori, la Regione paga ogni mese oltre 32 mila persone (senza contare poi tutti gli altri, tra i quali i famosi forestali), per una cifra pari a 1,6 miliardi l’anno. Pensioni e stipendi che non sono certo da fame: basti pensare che le prime - che in totale sono 16.237 - hanno un valore medio di quasi 39 mila euro lordi, cioè 22-24 mila euro netti. Tuttavia, dato che come per il famoso pollo di Trilussa c’è chi ne mangia uno e mezzo e chi mezzo, si deve segnalare che a raggiungere questa media concorrono anche pensioni da 256 mila euro lordi, perché fra tutti i dipendenti ce ne sono almeno 18 che incassano assegni superiori ai 200 mila euro e circa 200 che ritirano una pensioncina superiore ai 100 mila. Sta di fatto che ogni anno tutto ciò costa alle casse già disastrate della Sicilia la bellezza di 630 milioni. Non è tutto:  scrive Antonio Rossitto, autore dell’articolo, che a differenza di quanto accade ai comuni mortali, cioè agli italiani che non hanno la fortuna di essere dipendenti della Regione dei nababbi, le persone in carico a Palazzo dei Normanni possono contare su una reversibilità dell’assegno previdenziale pari all’ottanta per cento dello stipendio, mentre altrove si ferma al sessanta. Di più: mentre l’Inps taglia la pensione se questa è cumulata con altri redditi da lavoro, alla Regione Sicilia no. Si può conservare sia l’una che gli altri e percepirla anche se non si sono raggiunti i 67 anni di età e i 40 anni di contributi imposti dalla riforma Fornero. Insomma, la Sicilia è l’isola del tesoro, ma solo per chi è riuscito a farsi assumere dalla pubblica amministrazione governata da Rosario Crocetta. I soldi non ci sono, i rapporto fra pensionati e lavoratori attivi è peggiore di quello della Grecia, ma a Palazzo dei Normanni tutto scorre esattamente come prima. Altro che spending review. Macché politica di rigore e austerità sul modello Monti-Fornero. Chi se ne importa della Ue e della Merkel. La Sicilia è cosa nostra. Peccato che il conto sia poi degli italiani, i quali sono costretti a tirare la cinghia e fare sacrifici che in Sicilia non si fanno. Già lo scorso anno avevamo proposto al governo di esaminare seriamente l’idea di rivedere l’autonomia delle Regioni, studiando in sovrappiù la possibilità di commissariare gli enti nel caso che questi siano in default o abbiano debiti fuori controllo. All’epoca la proposta non fu presa in considerazione perché avrebbe richiesto tempi lunghi, in quando si sarebbe trattato di apportare modifiche alla costituzione. Tuttavia oggi che il governo discute di riforme istituzionali ci pare giunta l’ora di affrontare il tabù di uno statuto speciale che di speciale ha solo conti in rosso e nessuna autonomia se non quella della spesa.