L'editoriale

Altro che abolire l'Imu: qui la raddoppiano

Andrea Tempestini

Le tasse sono come le ciliegie: una tira l’altra e quando il Fisco comincia non riesce a fermarsi più. Altro che eliminare le imposte o, per lo meno, contenere quelle che già ci sono. Qui, nell’ora di fare i conti, cioè a settembre, si rischia di scoprire di dover pagare di più invece che di meno come ci era stato promesso. La novità riguarda la revisione del catasto, cioè dell’inventario dei beni immobili. Opera mastodontica di cui si parla da anni, giustificata dalla necessità di tenere aggiornata la situazione degli edifici in Italia, ma in realtà orientata a ricalcolare, ovviamente al rialzo, i valori del mattone. È vero, oggi al catasto risultano quotazioni largamente al di sotto dei prezzi di compravendita, perché nessuno si è mai preoccupato di tenerli al passo con le stime attribuite dal mercato. Così all’anagrafe delle proprietà alcuni palazzi sono registrati  come se si trattasse di box, con cifre assolutamente ridicole. L’introduzione dell’Imu era stata sostenuta proprio dall’esigenza di rettificare la valutazione. A chi si lamentava per l’eccessivo peso dell’imposta municipale sui portafogli delle famiglie, Mario Monti replicò dicendo che altrove si pagava di più e dunque anche gli italiani avrebbero dovuto rassegnarsi. Per tosare i proprietari di appartamenti - cioè gran parte degli italiani - il governo introdusse aliquote piuttosto elevate, che poi i Comuni spendaccioni resero ancor più salate. Ora, proprio mentre si annuncia l’intenzione di cancellare l’Imu, se non per tutti almeno per chi ha una prima casa, in Parlamento approda una misura che rivede la rendita catastale di ogni abitazione. Il che significherebbe far  lievitare il prelievo sul mattone nel momento in cui lo si compra.  Ma anche aumentare l’Imu  sulla seconda casa grazie alla revisione delle rendite catastali. Alcuni esperti hanno calcolato che l’incremento  sarebbe a tre cifre, andando dal 383 in più di Bologna al 900 di Roma. Il che, sempre secondo gli studiosi che hanno provato a capirci qualcosa, vorrebbe dire una bella batosta, pari al 60 per cento in più di quanto si pagava fino a ieri.  A ciò si aggiunga che la nuova Imu così ricalcolata si sommerebbe alla Tares, cioè alla tassa sui rifiuti, rivelandosi un salasso per il contribuente. In pratica, se con una mano il governo promettere di togliere l’Imu  a chi possiede la casa in cui abita, con l’altra si riprende la somma con gli interessi, prelevando il denaro dalle tasche di quei risparmiatori che hanno avuto la malsana idea di comprarsi con il lavoro di una vita un alloggio per la villeggiatura o un appartamento per garantirsi un reddito aggiuntivo una volta ritiratisi in pensione.   La bella notizia - si fa per dire - si somma ad un’altra novità che sembra fatta apposta per giustificare la scarsa considerazione che ormai ogni italiano nutre nei confronti della classe politica. È dell’altro ieri la manovra dei tesorieri dei partiti per aggirare la decisione di abolire il finanziamento pubblico. I cassieri sono a corto di quattrini e quindi non si rassegnano a far passare un provvedimento che, pur godendo di straordinaria popolarità, li impoverirebbe al punto da costringerli a mettere in liquidazione la ditta.  Insomma, mentre gli italiani tirano la cinghia e su di loro gravano nuove imposte, i partiti continuano a battere cassa e anche quando sembrano arrendersi all’opinione pubblica trovano il modo di spillare denaro. I trucchi per mantenere il finanziamento statale si sommano a quelli per evitare la chiusura delle Province, le quali a furor di popolo avrebbero dovuto sparire già quest’anno, ma grazie alla Corte costituzionale sono state tenute artificialmente in vita. Come è noto, si tratta di enti privi di poteri concreti ma ricchi di incarichi ben remunerati e questa situazione basta da sola a spiegare la resistenza alla chiusura. Meno noto è che alcune Province, mentre erano in attesa di essere abolite, si sono fatte - o progettano di farsi - una sede nuova  e questo non si riesce a spiegare neppure ricorrendo alla cronica distanza che esiste tra Palazzo e Paese reale. Sta di fatto che, come ha scoperto il nostro Franco Bechis, mentre si vorrebbe vendere il patrimonio pubblico, per ridurre con la cessione dei palazzi non più necessari il debito pubblico, Comuni, Province, Regioni moltiplicano le sedi e gli uffici periferici. Altro che spending review: nella pubblica amministrazione si fa la spending e basta.  Perché stupirsi, dunque, se poi il debito pubblico arriva alla cifra record del 130,3 per cento del  Pil, come ha certificato ieri l’Istat?    di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet