Ora sono Renzi nostri
Caro Matteo, adesso basta con le battutine: ti tocca lavorare...
È finita come doveva finire, cioè male. Enrico Letta è stato licenziato brutalmente dal suo stesso partito. Per dargli il benservito il suo segretario, cioè l'uomo che forse già la settimana prossima prenderà il suo posto, lo ha nominato appena, limitandosi a ringraziare il governo per il lavoro svolto. Bisogna aprire una fase nuova, ha detto Matteo Renzi: dobbiamo uscire dalla palude. Sì, ma per andare dove e per fare che cosa? Il sindaco di Firenze non lo ha spiegato, buttando lì poche frasi generiche sul coraggio, sulla necessità di cambiare le regole del gioco, di intervenire su burocrazia, lavoro, fisco. Niente di nuovo, dunque. Come i lettori sanno noi non ci siamo mai iscritti al partito degli estimatori di Enrico Letta, perché il premier ci è parso fin dal principio troppo debole e indeciso per avere la forza di guidare un esecutivo di larghe intese. Fare sintesi di due coalizioni agli antipodi e mettere d'accordo gente che si odia, dove un alleato cerca di far fuori l'altro, non è cosa facile, ma il presidente del Consiglio che il Pd ha ieri dimissionato non ha mai neppure provato a farlo. Ciò detto, il motivo per cui ieri il segretario del Pd lo ha mandato a casa è un altro e in un momento di verità Matteo Renzi lo ha confessato. A muovere il sindaco di Firenze è l'ambizione, anzi per dirla con lui, l'ambizione smisurata. Rispondendo alle mail dei militanti del partito che lo invitavano a non rischiare, a non bruciarsi, il segretario del Pd ha detto che se in questi anni non avesse rischiato starebbe facendo il suo secondo mandato da presidente della Provincia. È vero. Renzi ha giocato la sua partita senza risparmio, mettendo a repentaglio l'osso del collo. In un partito monocratico, retto da un gruppo di burocrati inossidabili, lui ha puntato tutte le sue fiches sul cambiamento, impersonando la rottura con il passato. Invece di cercare appoggio e protezione dai capi del partito, Renzi vi si è messo contro, assumendosi il rischio di esserne rottamato in quattro e quattr'otto. Onore dunque al merito e al coraggio dimostrati, che a dispetto di ogni previsione lo hanno portato dove tra breve starà, cioè a Palazzo Chigi. Ma basta essere uno scavezzacollo per guidare un Paese? È sufficiente saper rischiare per essere un buon politico o, addirittura, uno statista, cioè un uomo capace di condurre un Paese così complicato come il nostro ad una svolta? Ecco, a quella che è la domanda cruciale fino ad oggi Renzi non ha dato una risposta. La tattica con cui ha vinto la partita ed è giunto ai vertici del Pd e presto del governo è stata brillante. Tanta rapidità decisionale, tanto movimentismo. Come ha spiegato ieri il nostro Mario Giordano, ha dato prova di una straordinaria abilità nel dire una cosa e farne un'altra, smentendosi ogni volta che se n'è presentata l'occasione. È questa abilità nell'invertire la rotta con una improvvisa manovra il cambiamento di cui tante volte ha parlato e che ha adottato anche come suo slogan alle primarie? Nessuno lo sa. Renzi è stato bravo e furbo, la sua parlantina sciolta ha incantato gli elettori della sinistra e non solo, ma non c'è alcuna persona oggi in grado di dire con certezza quale sia il suo programma. Nonostante stia in televisione ogni sera e si faccia intervistare da chiunque, anche dal portiere dell'albergo in cui alloggia, il sindaco di Firenze è un vero oggetto misterioso. Anche quando ha parlato, cioè quando è uscito dalle promesse generiche e dagli slogan facili, le frasi sono state vaghe e volutamente poco precise. Le pensioni d'oro per finanziare il taglio del cuneo fiscale, la tassazione delle rendite finanziarie per reperire le risorse necessarie a istituire l'indennità di disoccupazione e il taglio delle bollette energetiche sono state fino ad oggi proposte a perdere, cioè idee lanciate come palloncini nell'etere e poi lasciate volar via. Luca Ricolfi, sociologo di sinistra e editorialista de La Stampa di Torino, notava qualche giorno fa - non senza stupore - che il piano per il lavoro, da questione primaria, dopo le primarie è scivolato in classifica, finendo tra gli argomenti da affrontare nei prossimi mesi, cioè il più tardi possibile. Ora però la campagna elettorale è finita. Renzi ha vinto. Ha conquistato il partito che voleva rottamarlo e a breve farà il suo ingresso a Palazzo Chigi. Gli slogan, le battute, il tono scherzoso di Gian Burrasca della politica gli serviranno ancora, ma meno. Dalla settimana prossima non starà più all'opposizione dei burocrati del suo partito. Presto starà al governo e se non esce dalla palude in cui si è tuffato, affogherà. E purtroppo il Paese con lui. Per dirla con una battuta che uno storico direttore del Corriere della Sera rivolse a un presidente della Repubblica negli anni Sessanta, siamo nelle sue mani: oddio in che mani siamo. di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet