L'editoriale

Una classe dirigente di conigli

Lucia Esposito

Più del vaffa che Renzi ieri ha ricevuto da Grillo - praticamente una non notizia tanto era scontato, e dunque a parte lo show del comico in diretta streaming nulla da segnalare -  mi hanno colpito i vaffa che il sindaco di Firenze ha collezionato in meno di una settimana. Da quando ha ottenuto l’incarico di formare il nuovo governo, il segretario del Partito democratico ha dovuto registrare i garbati rifiuti di una serie di manager e imprenditori che le cronache consideravano già ministri. Sbagliavano i giornalisti ad accreditarne la nomina? Forse, del resto gettare la croce addosso ai cronisti è ormai uno sport nazionale. In realtà io credo che abbia sbagliato Renzi a pensare che le adesioni entusiastiche al suo progetto di rottamazione della classe politica equivalessero a una discesa in campo. Fino a prova contraria, ad oggi di discese in campo ce n’è stata una sola ed è quella fatta da Silvio Berlusconi vent’anni fa. Il Cavaliere - per convenienza secondo alcuni, per amore verso il proprio paese secondo altri, per entrambe le ragioni secondo me - rischiò tutto,  la sua libertà, la sua azienda, il patrimonio accumulato in una vita, pur di creare una nuova forza politica che si opponesse alla sinistra. Come è andata a finire si sa, e ognuno può trarne le conclusioni che desidera, pensando che l’abbiano condannato proprio per la discesa in campo o che per essersi buttato in politica l’abbia fatta franca per due decenni. Sta di fatto che dopo di lui, chiunque voglia impegnarsi, come ministro o capo di un partito, sa che deve rischiare, rinunciando per amor di patria a molti vantaggi. A differenza dei politici di professione, infatti, non si può certo pensare che chi lascia la poltrona aziendale per quella di Montecitorio o Palazzo Chigi lo faccia per un tornaconto economico. Seppur più elevati della media, è evidente che gli emolumenti di chi fa il ministro sono niente rispetto a quelli di un amministratore delegato. Se si punta al portafoglio pieno non lo si ottiene salendo in politica (per dirla con Monti...), a meno di non mettere in conto operazioni sporche tipo tangenti o altro.  Naturalmente il fatto che manager e imprenditori badino più ai loro interessi che a quelli del paese è del tutto legittimo: nessuno pretende che si trasformino in Samaritani o si spoglino dei propri averi come San Francesco per occuparsi del bene comune. E però poi la smettano di farci la predica e  di dirci che questo Paese deve cambiare se loro sono i primi a tirarsi in dietro quando si presenta l’occasione di dimostrare che cosa possono fare.  Mi spiego: la mia è una critica alla classe dirigente di questo Paese, che nei conciliaboli e spesso anche pubblicamente critica la politica descrivendola come incapace e corrotta, ma poi non ha mai il coraggio di metterci la faccia. Bello partecipare ai convegni, divertente anche sfilare alle «Leopolde» dove si dice tutto il male possibile di chi sta in Parlamento, auspicando la rottamazione del governo di turno. Ma forse sarebbe anche ora di sporcarsi le mani. Imprenditori e manager sono famosi in Italia per la capacità di rimboccarsi le maniche quando si tratta di far partire o ripartire un’azienda. Tuttavia se il Paese finisce su un binario morto non c’è quasi nessuno che si dia da fare. Da Farinetti a Guerra, da Rosso a Cavalli sono bravissimi ad applaudire il Berlusconi o il Renzi che rischiano l’osso del collo, ma se c’è da dare una mano si tirano subito indietro. Lo dico da non tifoso del sindaco di Firenze, anche se pur essendo critico con lui - come credo la stragrande maggioranza degli italiani - auspico il suo successo: ma com’è, cari signori, che fino a ieri eravate entusiasti del Pierino toscano e adesso ve la date a gambe? Di cosa avete paura? Che qualcuno sfrucugli nei vostri affari o di non essere all’altezza? All’estero ci sono fior di manager che mollano la poltrona ben remunerata per dedicarsi alla politica e lo fanno con passione, dichiarando la propria fede per un’idea o un cambiamento. Qui invece si preferisce indossare ciò che è più trendy, Berlusconi o Renzi, a seconda della moda o del tornaconto.  Anzi: a dire il vero, qui si preferisce un’altra condotta ancora e cioè restare dietro le quinte, sponsorizzando ciò che conviene. L’esempio massimo è Carlo De Benedetti, l’uomo che con i suoi giornali sussurra ai potenti, cercando di convincere Fabrizio Barca ad accettare di fare il ministro dell’Economia. Ci si schiera nell’ombra,  impegnandosi ma senza esporsi troppo, pronti a saltare sul prossimo carro nel caso in cui quello su cui si è appena saliti finisca fuori strada. La verità è che la classe politica fa schifo, ma una parte della cosiddetta classe dirigente a volte è anche peggio.  Maurizio Belpietro