L'editoriale

Lucia Esposito

Umberto Bossi è sopravvissuto alla malattia che lo colpì sette anni fa, ma non sappiamo se la Lega sopravvivrà a lui. Infatti, salvatosi dall’ictus, il leader del Carroccio non ha fatto quello che sarebbe stato giusto fare, ovvero un passo indietro, affinché qualcun altro prendesse il suo posto alla guida del partito. Alla scelta più logica e ovvia il Senatur ha preferito quella più difficile e pericolosa. Ma rimasto al vertice, nonostante la sua tempra e la sua lucidità fossero fiaccate dal brutto colpo, Bossi si è fatto circondare da un clan di pretoriani. Un gruppo di famiglia ma non solo, che lo ha sostenuto e servito, e in cambio lo ha preso in ostaggio. In suo nome molte carriere sono state costruite durante questi anni e molte operazioni sono state compiute. Non sappiamo se davvero tutte nell’interesse della Lega e del federalismo.  La nostra non è una condanna preventiva perché per chiunque vale la presunzione d’innocenza. Dunque, anche per Francesco Belsito, indagato contemporaneamente da tre procure, bisognerà attendere la pronuncia definitiva della magistratura. Ciò nonostante, appare evidente che il tesoriere della Lega era del tutto inadeguato a ricoprire il ruolo che gli era stato affidato. Non soltanto per le carenze dal punto di vista tecnico che certo non testimoniavano di una sua competenza in materia amministrativa, ma anche per una serie di piccoli incidenti che ne avevano minato la reputazione.  La storia delle lauree tarocche, ovvero di titoli di studio di dubbia provenienza, non è di ieri. A svelarla, già un paio di anni fa, fu il Secolo XIX di Genova, la città in cui Belsito è nato. Una macchia che non prova nulla, di sicuro non l’attitudine a truffare lo Stato o a finanziare illecitamente i partiti, ma dà l’immagine di persona poco attendibile, non molto disposta a presentarsi in maniera trasparente. Anche se una laurea conseguita in università esotiche non dimostra ciò di cui oggi Belsito è accusato, la Lega avrebbe dovuto riflettere prima sulla figura del suo cassiere, controllando meglio le operazioni finanziarie da lui compiute e la disinvolta gestione dei fondi ottenuti dallo Stato. Infatti, se le responsabilità penali sono personali, quelle politiche sono dei dirigenti del Carroccio. Prima la storia delle lauree, poi quella dei soldi investiti in Tanzania, a Cipro e in Norvegia, la stessa per cui oggi il segretario amministrativo è finito nei guai. I milioni spediti all’estero per sfuggire al default dell’Italia - così ha successivamente spiegato Bossi - sono una vicenda che puzza di bruciato a distanza di chilometri. Un partito che specula con investimenti esteri ad alto rischio, mentre dice di voler difendere le piccole e medie imprese della Padania, non può essere cosa da passare sotto silenzio. Perché dunque, mesi fa, quando si scoprì la faccenda, quasi nessuno dei vertici leghisti prese pubblicamente le distanze o pretese si facesse chiarezza fino in fondo? Perché non fare una battaglia aperta, in nome della trasparenza e di quella moralità che giustamente si reclama dalla pubblica amministrazione e dallo Stato centrale? Naturalmente non ci sfugge la particolare condizione della Lega in questi anni. Un partito leninista, dove il leader è il capo assoluto e ha potere di vita e di morte sulle carriere politiche dei suoi seguaci. Ma dove, al tempo stesso, il leader ha un’autonomia ridotta a poche ore della giornata, causa malattia, e dove tutto il potere è in mano ai suoi pretoriani. Un cerchio magico, ma sarebbe più appropriato chiamarlo un cordone sanitario, che ha sì conservato al vertice Umberto Bossi, usandolo come un’icona, ma di fatto è subentrato a lui nella gestione del potere. Non è un caso che la carriera di Francesco Belsito come segretario amministrativo coincida proprio con la malattia del leader leghista. Da portaborse del liberale Alfredo Biondi, nel 2003 il tesoriere ora indagato salì sul Carroccio e rapidamente gli fu affidata la cassa. I magistrati ora dicono che le irregolarità iniziano da lì. I soldi servivano per il partito, ma anche per i familiari di Bossi. Spese politiche e spese personali, tutto gestito allo stesso modo. Non sappiamo quale sarà l’esito dell’inchiesta appena avviata, né quali saranno i contraccolpi dell’indagine sugli elettori leghisti. Una cosa però è certa. Se si vuole ristabilire l’immagine del partito, non è sostenendo la tesi del complotto che si raggiunge l’obiettivo. I giudici non amano la Lega per molte ragioni. Tuttavia, se esiste una strada per preservare gli ideali che furono di Umberto Bossi, questa passa necessariamente attraverso la pulizia e la chiarezza. Prevedendo anche un passo indietro: quello del leader malato. Ps. Nell’ordinanza con cui hanno disposto le perquisizioni, per spiegare i traffici di Francesco Belsito i pm scrivono di esborsi in contante o con assegni circolari o attraverso contratti simulati. E annotano: tali atti di disposizione, in ipotesi non riconducibili agli interessi del partito e contrari ai suoi vincoli statutari, hanno carattere appropriativo. Tradotto, significa che il tesoriere li usava per la famiglia. Per la Procura di Milano i conti dei partiti politici devono essere invece rendicontati in modo dettagliato, in maniera del tutto simile a quella delle società commerciali. Giusto, finalmente si fa luce sui bilanci dei partiti. Ma perché per la casa di Montecarlo e per il bilancio di An la procura di Roma sostenne esattamente il contrario, scrivendo che nella svendita dell’appartamento monegasco non c’era reato in quanto i partiti sono associazioni private? Due pesi e due misure? Due sentenze e due procure? Forse che qui c’è di mezzo un puzzone leghista e nell’affare in Costa Azzurra la terza carica dello Stato? Quanto ci piacerebbe saperlo. di Maurizio Belpietro