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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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C'è stato un tempo in cui la Lega ce l'aveva duro, ma ormai da almeno otto anni di quella durezza non c'era più traccia. Al suo posto era subentrato un leader debole e malato, provato nel corpo e circondato da una famiglia ingombrante. Non ci fosse stata quella, probabilmente Umberto Bossi si sarebbe accontentato di fare il nume tutelare del partito. Ma avendo i rampolli da sistemare, nonostante biascicasse poche parole, conservò la poltrona di segretario. Dicono che l'ictus lo avesse reso più attento alle esigenze di casa, preoccupato di garantire un futuro alla moglie e ai figli. Per questo, poco dopo il brutto colpo, mentre ancora era in clinica, aveva deciso di lasciare il Parlamento nazionale per quello europeo: a Bruxelles si guadagnava di più. Le stesse ragioni lo avevano spinto a fare assumere il maggiore dei suoi ragazzi come assistente dell'euro-onorevole Francesco Speroni, così da garantirgli un introito. Più recentemente era riuscito a piazzare il secondo, Renzo, nel Consiglio regionale lombardo, assicurandogli  stipendio e carriera. Al terzo pare invece aver comprato una fattoria, assecondandone la passione per la terra. Purtroppo però, la famiglia è stata anche la sua rovina. Gli ingombranti giovanotti, le loro esigenze e le loro bravate, le discutibili frequentazioni di alcuni di loro, lo hanno costretto alla resa. Un finale drammatico, che nessuno poteva prevedere. Neanche noi, che pure  avevamo invitato il Senatur a farsi da parte già l'estate scorsa, immaginavamo una caduta così rovinosa. Per quanto fossimo a conoscenza delle faide interne al Carroccio, tra il cerchio magico e i maroniani,  e intuissimo la conduzione familistica del partito, mai avremmo pensato ad un tale precipitare degli eventi, con le guardie sulla porta di casa e le peggiori accuse nei decreti di perquisizione. E dire che avendo, per dovere di cronaca, seguito l'agonia della prima Repubblica ci era toccato raccontare gli affari e i pasticci di molti potenti. Dalle serate danzanti di Gianni De Michelis ai viaggi in Cina di una corte di mogli e portaborse. Certo, anche allora c'erano nani e ballerine. Anche allora si vedevano figlioli imbarazzanti scorazzare in città con macchinoni di lusso. E anche allora non tutti gli eredi del capo erano dei fulmini di guerra. Però tutto era, se non un po' più sobrio, almeno più misurato. Intendiamoci, per rubare i politici rubavano anche a quel tempo, ma quasi sempre per il partito. Nel caso in fattispecie, se saranno verificate le accuse, i soldi invece sono stati spesi per  la famiglia. Auto, ristrutturazioni della villa del leader, conti in sospeso. La cassa del partito confusa con quella di casa. Bossi sapeva e se sapeva approvava? Non sappiamo. Di certo la gestione dei soldi non è mai stata il suo forte. In vent'anni di vita, più volte la Lega è scivolata sui fondi: alcune volte neri, come quelli che Raul Gardini consegnò a un cassiere frettolosamente congedato con la qualifica di pirla, altre volte in chiaro, come i tanti investiti nella banca padana o nelle speculazioni immobiliari in Croazia. Un'amministrazione un po' naïf che  non poteva di sicuro migliorare dopo la malattia, quando la cassa fu lasciata in custodia nelle mani di Francesco Belsito, l'ex autista promosso contabile. La nostra sensazione è che Umberto da tempo avesse perso il controllo del partito e non se ne fosse accorto. Pur avendo conservato il posto di segretario, il Senatur si è circondato di una serie di badanti non sempre  disinteressati, in cui si annoverano affaristi, carrieristi e maghe.  Per questo, appena avuta notizia delle indagini a carico di Belsito, martedì lo abbiamo esortato a sgombrare il campo. Per quanto le accuse fossero ancora da provare, era l'insieme degli eventi a indicare nelle dimissioni l'unica via d'uscita. Anche se Bossi non si fosse messo in tasca un euro, è la  sua gestione che ha consentito ad altri di farlo. Lui che ha avallato la decisione del tesoriere di investire in Tanzania, coprendolo quando si è appresa la storia. Lui che si è tirato dietro la figliolanza, arruolandola nel partito. Ovviamente non sappiamo se il passo indietro sarà sufficiente a salvare la Lega. Senza Bossi e senza la verginità di partito anti ladroni, il Carroccio potrebbe anche non farcela. Ma se c'era un modo per preservare le buone idee federaliste che il Senatur in vent'anni ha imposto, questo prevedeva necessariamente la sua uscita di scena. Chi gli subentrerà cercherà di limitare i danni, tuttavia non potrà che riconoscere la fine di una stagione. Con il leader leghista cala il sipario su slogan e riti: dalla secessione alla Padania libera, dall'ampolla del Monviso al Parlamento padano. Addio anche ai 300 mila bergamaschi armati: sarebbe un successo se restassero quelli disarmati. Perché, se la Lega è ladrona, la gente non perdona.  di Maurizio Belpietro

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