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L'inizio della terza guerra mondiale. Fate attenzione a questa data

Andrea Tempestini
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I Maya, bontà loro, avevano fissato la fine del mondo per il 2012. Per qualche mese li abbiamo pure presi sul serio, immaginando catastrofi naturali e disgrazie assortite. Ma, appena superata la data fatidica, ci siamo concessi sghignazzate liberatorie alla faccia dei gufi sudamericani. Col senno di poi, avremmo dovuto andarci più cauti. I pessimi auguri dei Maya saranno stati pure un tantino esagerati, però il caos che viviamo in questi mesi è iniziato più o meno nel periodo che loro avevano previsto. La deflagrazione globale - che ora si manifesta nella guerra nemmeno troppo tiepida fra Russia e Turchia e negli assalti jihadisti all'Europa – affonda le radici nel 2011. Non vogliamo fare i complottisti e suggerire che dietro alla lunga catena di avvenimenti di quell'anno ci fosse un disegno preciso. Ci limitiamo a notare che quanto successo allora ha avuto ripercussioni devastanti sul nostro presente. Tanto per cominciare, il 2011 è l'anno in cui gli Stati Uniti fissarono la morte di Osama Bin Laden. Per la precisione il 2 maggio, con il celebre blitz nel compound di Abbottabad, in Pakistan. La versione ufficiale raccontava che i Navy Seals si introdussero nella scalcagnata palazzina in cui il capo supremo di al-Qaeda si era rifugiato e lo freddarono prima che potesse darsi alla fuga. Successivamente – grazie a una serie di inchieste condotte da giornalisti statunitensi di primo piano – si è scoperto che le cose non andarono proprio come Obama le aveva raccontate. Ma ormai la frittata era fatta, il perfido Osama era defunto, e il simpatico Barack aveva venduto al mondo intero la sua favoletta: a dieci anni dall'Undici settembre, il terrore islamico era finito. Sconfitto, morto, sepolto: si preparava una lunga era di pace e prosperità. Niente più guerre in Iraq e in Afghanistan, niente più americani in giro per il mondo a fare i poliziotti globali. La democrazia aveva trionfato sull'orrore. Non a caso, un «fermento libertario» aveva cominciato a scuotere il mondo arabo-musulmano dalle fondamenta. Il 2011, infatti, fu anche l'anno delle cosiddette «primavere arabe». Cioè i movimenti che avrebbero dovuto destituire tutti i dittatori e gli autocrati del Nord Africa e del Medio Oriente e instaurare ovunque nuovi regimi basati sui diritti civili e sulle migliori istanze umanitarie occidentali. Cominciò la Tunisia, esattamente 5 anni fa, quando il 17 dicembre 2010 l'ambulante Mohamed Bouazizi si diede fuoco per protesta contro il regime: presto la «Rivoluzione dei Gelsomini» detronizzò Ben Ali. Poi il contagio «democratico» si allargò ai Paesi vicini. A stretto giro, toccò all'Egitto di Murbarak. Le sollevazioni toccarono addirittura lo Yemen dell'intransigente Saleh. Ma le due «primavere» più importanti furono senz'altro quelle della Libia e della Siria. Il 15 marzo del 2011 iniziarono le dimostrazioni contro il presidente siriano Assad. A pochi giorni di distanza, il 19 marzo, una provvidenziale risoluzione Onu autorizzò l'intervento europeo a guida francese contro Gheddafi. ANNIVERSARIO Il quadro comincia a delinearsi. Il 2011 - decimo anniversario del più spettacolare e micidiale attentato terroristico di tutti i tempi contro l'America - avrebbe dovuto essere l'anno della vittoria dell'Occidente. La fine della storia preconizzata dallo studioso Francis Fukuyama dopo la caduta dell'Urss avrebbe dovuto realizzarsi sotto la presidenza di Obama. Gli Stati Uniti avrebbero potuto togliere i propri uomini dalle zone calde del pianeta e lasciare mano libera a governi a loro favorevoli improntati a un modello il più occidentale possibile. Basta con lo «scontro di civiltà» che aveva caratterizzato l'epoca del guerrafondaio George W. Bush: l'armonia avrebbe prevalso e le culture si sarabbero fuse in un'unica civiltà basata sui diritti umani e il rispetto reciproco. Qualcosa, però, è andato storto, e oggi ne possiamo toccare con mano le conseguenze. Allentare la tensione in Iraq e Afghanistan dopo anni di destabilizzazione non ha fatto altro che favorire l'emersione e l'espansione di gruppi radicali. In Afghanistan i talebani hanno ripreso forza, e le nuove generazioni di combattenti si sono fatte affascinare dalle sirene sanguinarie del Califfato, ovvero la Bestia nera cresciuta fra le macerie irachene. Il 2011, infatti, è anche l'anno in cui al-Qaeda in Iraq diventa a tutti gli effetti Isi (Stato islamico dell'Iraq) sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi. Cioè l'uomo che, il 4 ottobre, viene etichettato dal Dipartimento di Stato Usa «Specially Designated Global Terrorist». Ecco il primo risultato delle politiche di Obama. La scelta di alimentare una guerra civile in Siria e, contemporaneamente, di trascurare l'Iraq, ha fatto sì che i tagliagole non solo si rafforzassero, ma pure che si espandessero. È nel 2011 che al-Qaeda decide di varcare il confine e andare in Siria, dove nasce la filiale chiamata al-Nusra, almeno inizialmente alleata dell'Isis. Assad, impegnato a fronteggiare gli attacchi dell'opposizione armata interna, non è riuscito a sradicare subito l'organizzazione jihadista, che col passare dei mesi e degli anni è cresciuta, foraggiata anche da aiuti dell'Occidente, compresi quelli della Francia (fu il ministro degli Esteri di Parigi, Laurent Fabius, a spendere parole di elogio per al-Nusra, giudicata più moderata del Califfato). Risultato: la Siria è divenuta teatro di una guerra per procura in cui sono in gioco gli interessi dell'America e dei suoi alleati sauditi, che nel frattempo bombardano lo Yemen (sempre a proposito di primavere ben riuscite). Senza dimenticare gli affari della Russia e della Turchia, il cui scontro è sempre più diretto. Quanto accaduto nel Levante e in Iraq si è ripetuto in modo identico in quasi tutti gli altri Paesi sfiorati dalle rivolte. La Libia di Gheddafi si è tramutata in un carnaio in cui imperversano bande armate, per lo più jihadiste. A Sirte si è stabilita quella che forse è la filiale dell'Is più potente al mondo, ora in procinto di allargarsi verso Misurata e Bengasi, dunque verso l'Italia. La Tunisia è divenuta un serbatoio di combattenti, molti dei quali partiti per la Siria su esplicita indicazione del partito islamista Ennahda. E quando i tunisini hanno cercato di mettere da parte le forze religiose più estreme, sono stati colpiti da bestiali attentati. Solo l'Egitto per ora si salva, grazie al regime militare di al-Sisi. FALLIMENTO Il bilancio finale è chiaro. La tanto sbandierata «fine del terrore» si è rivelata una disastro di proporzioni epiche. Le forze jihadiste sfruttate per fomentare le varie primavere si sono rivoltate contro l'Occidente e hanno cominciato a colpire pure l'Europa. Fatto di cui, per altro, avevamo già avuto avvisaglie nello stesso 2011. Nella notte tra l'1 e il 2 novembre di quell'anno la sede di Charlie Hebdo fu fatta saltare da ordigni esplosivi. Era l'antipasto della strage che ha decimato la redazione del giornale nel gennaio di quest'anno. Le guerre e i bombardamenti condotti in nome dei diritti umani (ma con ben altri scopi reali, squisitamente politici e nient'affatto umanitari) hanno provocato un'onda d'urto che continua a scuoterci. Il buonismo appiccicoso con cui abbiamo affrontato il rapporto con l'islam e l'ondata migratoria ha fatto il resto, rendendoci imbelli e impreparati al disastro. Tutto è male quel che inizia male. Con buona pace dei Maya. di Francesco Borgonovo

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