Regime d'esportazione

Usa, la polizia segreta cinese aggredisce i dissidenti: un caso inquietante

Marco Respinti

Mercoledì sera Xi Jinping, leader assoluto del neo-post-nazional-comunismo cinese, è stato l’ospite d’onore della cena patrizia organizzata nell’Hyatt Regency Hotel di San Francisco da due colossi del commercio con l’ex Impero Celeste, lo US-China Business Council e il National Committee on US-China Relations. Alla cena sedeva il gotha della business community americana:. Costo, 2mila dollari a testa, ma con 40mila ci si poteva accomodare allo stesso tavolo di Xi. Un contributo a quella crisi economica cinese che è stata denunciata da Casa Bianca e Consiglio per la sicurezza nazionale statunitense alla vigilia del vertice fra Xi e il presidente Joe Biden, svoltosi poche ore prima nella tenuta di Filoli a Woodside?

 


BANDIERE ROSSE - Un vertice peraltro enigmatico, quello. Sì, preceduto e accompagnato da convenevoli e buonismi, ha impegnato Cina e Stati Uniti in monitoraggio dell’intelligenza artificiale, lotta ai mutamenti climatici, apertura di una hotline presidenziale, comunicazioni fra apparati militari e contrasto al Fentanyl, la micidiale droga di ultima generazione che si produce in Cina e ammazza in Occidente. Ma alla fine Biden ha sganciato su tutto una bomba. Dopo le pacche sulle spalle di poco prima, nella conferenza stampa in solitaria seguita al vertice ha detto di non avere cambiato idea su Xi, considerandolo ancora, come disse in giugno, un despota. E come dargli torto, visto il grave incidente di mercoledì? 
Perché, fuori le stanze dell’APEC, la Cooperazione economica per l’Asia-Pacifico che si chiude oggi a San Francisco, e che ha occasionato l’ulteriore faccia a faccia separato fra Biden e Xi, un gruppo di contestatori del regime cinese veniva malmenato da altri cinesi mascherati, in uno sfavillar di bandiere rosse. Un servizio d’ordine che Xi si è portato da casa, libero di invadere un Paese straniero e aggredire manifestanti pacifici? Non ci sarebbe da stupirsi, visto il piano messo in campo dal ministero della Sicurezza pubblica di Pechino.

 

 


Ribattezzata «Overseas 110», dove il numero è quello del pronto intervento delle gendarmerie cinesi, è una colossale operazione di infiltrazione attraverso lo stazionamento illegale di centrali di polizia cinesi in Paesi esteri onde intimidire i dissidenti espatriati e favorirne l’estradizione come si trattasse di criminali. Un rapporto pubblicato nel 2022 dall’ONG Safeguard Defenders, che da Madrid monitora il rispetto dei diritti umani in vari Paesi del mondo, ha scoperchiato il vaso di Pandora, innescando inchieste ufficiali. Le stazioni all’estero censite dalla ONG sono 102 in 53 Paesi. In Italia ne sono state individuate almeno 11. Ci sono video di poliziotti cinesi che a Roma aiuterebbero i turisti in difficoltà e Pechino, che ovviamente nega tutto, dice trattarsi solo di sostegno durante la pandemia. L’operazione è stata però lanciata nel 2016 con esperimenti pilota architettati dagli uffici di pubblica sicurezza delle città di Nantong e Wenzhou, poi proliferati.

 


INVASIONE DI CAMPO «Si tratta solo», dice Laura Harth, Campaign Director di Safeguard Defenders, a Libero, «della punta di un iceberg». Da quando Xi Jinping è al potere, continua, «vi è una marcata e dichiarata tendenza di Pechino a esportare sempre più il capillare sistema di controllo già attivo in patria». Questo avviene soprattutto dove il regime ha i propri interessi: aziende, media e diaspora. «Esattamente come le leggi sulla sicurezza vigenti in Cina prevedono l’extra-territorialità, questa “sicurezza con caratteristiche cinesi” travalica i confini. Gli episodi di sopruso transnazionale si moltiplicano: direttamente, attraverso l’abuso dei meccanismi di cooperazione internazionale e bilaterale, oppure indirettamente, attraverso proxy stranieri che operano come agenti sia di influenza sia di repressione. Le stazioni di polizia sono solo uno dei volti di questo sistema opprimente che opera senza timore di violare la sovranità di Stati terzi». 

 

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