Cerca
Cerca
+

La libertà di stampa per la sinistra è lasciare Gaza al monopolio di Hamas

Giovanni Longoni
  • a
  • a
  • a

La polemica sull’informazione attorno alla guerra di Gaza imperversa sui nostri social. Ieri Selvaggia Lucarelli ritwittava l’intervista di Francesca Mannocchi a RadioTre in cui l’inviata di Repubblica raccontava che il suo quotidiano aveva accettato, per avere l’ok israeliano ed entrare in territorio di guerra, di sottostare al controllo del materiale filmato. Mannocchi ha provato a spiegare che ciò capita a «tutti i colleghi che sono entrati, Selvaggia. NYT, CNN, Channel4 e che lo hanno, esattamente come Repubblica, dichiarato ai lettori.  Succede in tempo di guerra». Appunto, succede spesso. Il controllo sui filmati risponde a criteri di sicurezza (possono essere filmati i volti dei militari o armi sofisticate o altri oggetti sensibili) ed è quasi la norma. Israele, poi, dice Mannocchi, non mette il becco sui testi degli articolisti. Lei stessa difficilmente si può accusare di parzialità filoisraeliana. Eppure la polemica infuria e lo Stato ebraico passa per un regime che impedisce la libertà di stampa.

 

In guerra l’informazione è sempre stata uno strumento di importanza pari alle armi vere e proprie. Da Sun Tzu a Montecuccoli, i maggiori teorici bellici ne sono stati consapevoli. E anche se il loro collega più influente sulla contemporaneità, Clausewitz, non era di questo avviso, oggi in una società informatizzata si combatte anche con l’informazione. Sia quella ottenuta dai servizi di intelligence, sia dal giornalismo. Lo scontro a Gaza non solo non fa eccezione ma visi assiste a un fenomeno singolare: secondo l’ong americana Committee to Protect Journalists, si tratterebbe del conflitto con il bilancio di cronisti uccisi di gran lunga più elevato degli ultimi 30 anni. Un’altra ong, la famosa Reporters sans frontières, tiene il bilancio giorno per giorno dei professionisti dell’informazione morti durante l’operazione “Spade di ferro”. A ieri sera risultavano 48 caduti, di cui 11 durante l’«esercizio della loro professione». 

 

 

Secondo un calcolo del Washington Post, i giornalisti deceduti sono il 4% del totale, che ammonterebbe a un po’ più di 1200 persone. Una cifra alta per un Paese di neanche 2 milioni e mezzo di abitanti ma non spropositata, dato l’interesse che riveste a livello internazionale. Un po’ più strano è il fatto che la “copertura” sulla Striscia sia mediata praticamente dai soli corrispondenti locali. Una delle poche agenzie occidentali a possedere un proprio ufficio di corrispondenza a Gaza è la France Presse (AFP), come racconta CNN, ma l’impiego di cronisti palestinesi è la prassi comune. Già di per sè la cosa non suona bene: immaginate la Guerra in Ucraina raccontata soltanto da voci dei due contendenti, ucraini e russi, senza l’intervento di inviati stranieri. Ma soprattutto il problema è che Gaza non è una città come le altre: la governa (-ava) un gruppo terrorista che difficilmente non avrà avuto a cuore il modo in cui il mondo viene informato sul territorio da essa controllato.

 


Ieri, nei filmati dei terroristi che si sono arresi, qualcuno ha notato il giornalista palestinese Diaa Al-Kahlout, corrispondente della testata qatarina The New Arab, arrestato nel Nord della Striscia insieme ad alcuni parenti. Ong e palestinesi ne invocano la liberazione e accusano Israele di prendere di mira i cronisti perché raccontano la verità sugli abusi di cui si macchierebbe l’IDF. Qualcuno sembra pure crederci ma poi capitano cose come la rivelazione fatta dal sito HonestReporting che ha incastrato quattro fotoreporter che lavoravano per Associated Press, Cnn e Reuters. I quattro erano presenti sulla scena dei crimini del 7 ottobre, ospiti dei terroristi (“embedded” qualcuno ha scritto, come se i tagliagole di Hamas fossero un esercito regolare) e la scoperta ha portato al loro allontanamento dalle testate occidentali. Di fronte a questi fatti, anche l’accusa che l’IDF prenda di mira questi “giornalisti” assume un significato diverso. Ieri per esempio è stato eliminato, centrato da un drone, Refaat Elarir, poeta e collaboratore del New York Times. La stampa progressista, col Guardian in testa, ne ha pianto la scomparsa. Times of Israel, invece ricorda un suo intervento alla BBC in cui dichiarò «legittimo e morale» il massacro del 7 ottobre. Il Daily Mail non ha taciuto nemmeno il suo tweet in cui si prendeva gioco del racconto dei testimoni che avevano trovato in un forno il cadavere carbonizzato di un bambino ebreo. «Lievitato o no?», fu la battuta del poeta palestinese. Che gli è costata la vita.

 

 

Dai blog