Orbanizzarla

Giorgia Meloni? "Obiettivo: incarognire". Ecco cosa pubblicano su Repubblica

Fausto Carioti

Orbanizzare Giorgia Meloni. Fare pressione sul Partito popolare europeo affinché tra un anno confermi l'alleanza con i socialisti (incluso il Pd), anziché accordarsi con i conservatori guidati dalla presidente di FdI. Irrigidire ancora di più la posizione di Emmanuel Macron e del suo gruppo liberal, Renew Europe, cui appartengono anche Carlo Calenda e Matteo Renzi, affinché dopo le elezioni europee non accettino alcuna maggioranza che non sia la fotocopia di quella attuale, con i socialisti dentro e i conservatori fuori. È questo l’obiettivo sul quale la sinistra italiana sta spostando tutte le truppe, incluse quelle dei giornali d’area. Era importante già da prima, ma è diventato l’unica cosa che conta dopo i ballottaggi delle elezioni comunali, nei quali è emersa tutta la debolezza di Elly Schlein: visto che non si può contare sul Pd per sconfiggere alle Europee il centrodestra trainato dalla premier, è necessario che la partita vera venga giocata altrove, nelle stanze di Bruxelles.

 

 

 

Così, più la presidente di Fdi si sposta dal fronte sovranista a quello conservatore, e si mostra capace di intercettare il voto degli elettori di centro e di stringere col Ppe accordi che potrebbero cambiare il volto dell’Unione europea, più la campagna per dipingerla come la gemella di Viktor Orbán s’incarognisce. Si spediscono messaggi destinati non agli italiani, ma alle altre cancellerie e ai giornali europei, affinché passi il messaggio che la Meloni viola le libertà fondamentali e lo stato di diritto, e dunque merita lo stesso trattamento riservato al premier ungherese, che assieme al proprio partito è stato costretto ad uscire dal Ppe ed ora è fuori da tutte le grandi famiglie europee.

 

 

 

Il trattamento è già iniziato e l’assonanza tra giornali di sinistra con linee diverse conferma che tutto ruota attorno a questa questione. L’edizione di Repubblica in edicola ieri titola «Italia alla Orbán». L’esecutivo italiano, avverte il quotidiano diretto da Maurizio Molinari, «ha dimostrato in questi giorni un’insofferenza ai poteri terzi e neutrali che avvicina l’Italia all’Ungheria di Orbán». Il contrasto tra palazzo Chigi e la Corte dei Conti è il pretesto col quale si spera di far processare il governo Meloni dalle istituzioni europee, con l’accusa di voler rendere i magistrati subordinati all’esecutivo: un copione già usato con Orbán. È una delle poche cose su cui il quotidiano guidato da Matteo Renzi parla lo stesso linguaggio delle testate del gruppo Gedi. Sulla prima pagina del Riformista di ieri, un fotomontaggio mostra Meloni e Orbán, «nemici d’Italia», felici e sorridenti mentre si fanno un selfie insieme. La rediviva Unità diretta da Piero Sansonetti insiste sullo stesso concetto, denuncia «la crescente insofferenza del governo verso la democrazia» e titola sulla «Museruola ai poteri di controllo: si scrive Meloni, si legge Orbán».

 

 

 


Uno sforzo corale, insomma, del quale questo è solo l’inizio. Partecipa anche Romano Prodi, che scrive una lettera di poche righe pubblicata sulla prima pagina della Stampa: «Caro direttore, per avere una conferma della mia preoccupazione, espressa sul suo giornale, sull’aumento di autoritarismo del governo, è bastato un solo giorno. Il braccio di ferro per limitare il ruolo della Corte dei Conti ne è un’ulteriore prova». Due giorni prima, sempre sul quotidiano degli Agnelli, il fondatore dell’Ulivo aveva detto che «siamo davanti ad un governo che punta a prendersi tutto. C’è una parola semplice che riassume tutto questo: autoritarismo. Così si sta cambiando la natura del Paese». Prodi non è un commentatore qualunque, e nemmeno un semplice avversario del centrodestra.


Per gli altri governi e per Bruxelles, egli è innanzitutto l’uomo che ha guidato la commissione europea dal 1999 al 2004. Una figura istituzionale che tutti conoscono e conta amici non solo tra i socialisti, ma anche tra i centristi. Quando parla di certe cose, sa che le sue parole finiranno nelle rassegne dei capi di governo e dei leader dei principali partiti europei. Ora ha deciso di usare questa sua forza non tanto per sospingere la Schlein, che è impresa disperata e al di fuori della sua portata, ma per dire ai moderati del parlamento di Strasburgo e ai vertici delle istituzioni Ue interessati a dialogare con Giorgia Meloni che il suo governo è un pericolo per la democrazia e che lei non merita l’accoglienza che il presidente del Ppe, il tedesco Manfred Weber, le sta organizzando insieme ad Antonio Tajani. Perché solo tenendo fuori i Fratelli d’Italia e i loro alleati europei dall’alleanza con i popolari e i liberal sarà possibile lasciare al Pd i privilegi che ha oggi a Bruxelles e proseguire con l’accentramento dei poteri da parte delle istituzioni europee ai danni degli Stati nazionali. La posta in palio è questa. E chi dipinge la Meloni come la versione italiana di Orbán non si rivolge agli elettori, ai quali simili paragoni dicono nulla e che hanno già dimostrato di non credere a chi grida alla svolta autoritaria, ma parla alle cinquanta, cento persone che nei prossimi mesi decideranno se dal 2024 la Ue dovrà prendere una nuova strada o continuare con le ricette socialiste di Frans Timmermans e di quelli come lui.