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"Ho denunciato una truffa,e hanno processato me"

Raccontateci le vostre storie da "giustiziati", ossia cittadini con la vita stravolta dai bizantinismi della giustizia
di Andrea Tempestini domenica 24 giugno 2012

5' di lettura

  Prosegue la campagna di Libero sui «giustiziati», cittadini che si sono trovati con la vita stravolta a causa di lungaggini burocratiche e bizantinismi della giustizia italiana. In redazione sono pervenute decine di storie. Oggi pubblichiamo la sventura di Marco Villa, che nel 2001 scoprì di aver subito una frode via Internet: qualcuno aveva speso 20 euro dalla sua carta di credito. Il signor Villa ha presentato una denuncia ai carabinieri, in modo da poter avviare le pratiche con la banca e mettere in sicurezza la carta, e ha rinunciato (vista l’esiguità della cifra) a chiedere qualsiasi forma di rimborso. Nonostante ciò dopo un anno a casa sua è arrivata la polizia postale con un’accusa: «Quei 20 euro li ha spesi lei, adesso la indaghiamo per simulazione di reato». Solo dopo tre anni di udienze e 6mila euro di avvocati ha ottenuto una (logica) assoluzione. La mia storia inizia nel gennaio 2001,  un giorno ricevendo l’estratto conto della carta di credito che usavo per i pagamenti su Internet mi accorgevo che alcune spese per 28 dollari (circa 20 euro)  non erano state fatte da me e  per assicurarmene mi collegai al sito (tipo Paypal) dove la carta era stata utilizzata e verificai il pagamento a favore di un sito pornografico con sede negli Stati Uniti da me mai visitato. Immediatamente bloccai la carta di credito e per rispettare l’iter bancario in caso di utilizzo fraudolento della carta andai a sporgere denuncia a i carabinieri ma senza richiedere alla banca alcun rimborso, vista l’esiguità della cifra sottrattami.Dopo circa un anno, alle 7 del mattino squilla il citofono della casa dove vivevo con i miei genitori e tre agenti di polizia postale si presentano con un mandato di perquisizione, aprono il mio computer, fanno delle verifiche e infine mi sequestrano il pc facendomi firmale dei verbali e notificandomi un avviso di garanzia. Io ingenuamente al loro arrivo pensavo mi comunicassero notizie sulla truffa da me subita e invece ero io a trovarmi  indagato per simulazione di reato, in quanto l’agente che aveva svolto le indagini riteneva che io mi fossi realmente collegato a questi siti utilizzando la mia carta di credito per poi denunciare il falso reato di utilizzo fraudolento della mia stessa carta, a quale scopo non si può dire, considerato che non avevo chiesto nessun rimborso. Il bello viene dagli atti di indagine, nei quali si rileva come indizio accusatorio nei miei confronti una coincidenza oraria fra l’ora delle transazioni fraudolente negli Stati Uniti (ore 6.30 p.m.) e una connessione Internet da casa mia (ore 13.30 dello stesso giorno), in sostanza gli agenti inquirenti pensano che mentre io in Italia alle 13.30 ero collegato ad Internet, alle 6.30 del mattino negli Stati Uniti venivano fatte le spese da me poi non riconosciute. Ora, a prescindere dal fatto che io potrei subire una truffa su Internet anche nel momento in cui io sono collegato alla rete, l’incredibile è che l’agente che ha costruito questa coincidenza non sapeva leggere le ore! Non sapeva che la sigla p.m. negli Stati Uniti indica le ore pomeridiane e quindi le «6.30 p.m.» non sono le 6.30 del mattino negli Stati Uniti ma le 6.30 del pomeriggio e non possono coincidere con le 13.30 ora italiana. Io mi chiedo: ma perché il pubblico ministero prima di mandare tre agenti a casa mia non ha letto questi atti di indagine da cui emergeva un errore tanto grossolano? Altro indizio a mio carico secondo gli agenti della polizia postale è il fatto che nel mio computer ci fossero files di quei siti in date antecedenti alle transazioni fraudolente. Ora, io allora non ero un esperto e mi sono dovuto informare oltre che chiedere l’assistenza di un perito informatico per la causa, ma Internet funziona in questo modo: quando ci si collega ad un sito web non si fa altro che scaricare sul proprio computer i files che costituiscono le pagine web di quel sito, quindi se voi nel 2012 vi collegate ad un sito web creato nel 2001 scaricate sul vostro computer dei files creati nel 2001 ma questo non significa che nel 2001 voi avete visitato quel sito (potete fare la prova collegandovi a qualunque sito web e poi verificare nella cartella del computer «temporary internet files» la data di quei files). Sarebbe come dire che avere in casa un libro o una rivista pubblicata nel 1960 prova che nel 1960 voi avete letto quel libro o quella rivista: non è cosi! Io mi chiedo: ma perché per dimostrare questa cosa ho dovuto assumere un perito quando sono nozioni che gli esperti informatici che hanno sequestrato il mio computer e svolto le indagini avrebbero dovuto sapere? Ho passato anni da indagato rendendomi conto che per la giustizia in  Italia uno è colpevole finché non ha provato la sua innocenza. Nemmeno all’udienza finale ho avuto il piacere di vedere in faccia il pubblico ministero, in sua vece si è presentata una giovanissima signorina che senza avermi mai visto prima in vita sua né avermi rivolto la parola dopo la disquisizione della causa, ha avuto l’ardire di chiedere per me la reclusione in carcere per una causa di 20 euro! Alla fine mi è andata bene: dopo tre anni da indagato, circa cinque udienze e 6000 euro spesi fra avvocati e periti sono stato assolto nel gennaio 2004 perché il fatto non sussiste, ma ancora oggi mi faccio molte domande. Perché avrei dovuto simulare un reato per non avere nessun vantaggio? Perché una persona che non sa leggere le ore può disporre delle limitazioni della libertà di un individuo? Perché un pubblico ministero che non mi ha mai incontrato di persona è arrivato a rinviarmi a giudizio per una causa di 20 euro? Perché la mia odissea giudiziaria è durata tre anni quando sarebbe bastato leggere più attentamente gli atti di indagine per troncare la causa sul nascere? Perché le cause si basano sul nulla? La considerazione finale è questa: anche se tutti gli indizi fossero stati provati e reali, ciò non sarebbe comunque stato una prova di colpevolezza: anche se fossi stato connesso ad internet a quell’ora e mi fossi collegato a quei siti in periodi precedenti alla truffa (come non è stato), ciò non avrebbe provato comunque che io avessi  autorizzato lì l’uso della mia carta di credito, e quindi non avrebbe provato la simulazione di reato.  di Marco Villa  

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