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Beppe Grillo indagato, ma non gli sequestrano il cellulare: la scelta che scatena il sospetto

Beppe Grillo

Alessandro Giuli
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C'è un peso morto e beffardo che sta zavorrando la già claudicante partita del Movimento Cinque stelle sul Quirinale: Beppe Grillo. Il fondatore Elevato, il Jocker e Mangiafuoco, l'impresario del populismo che la volta scorsa opzionò invano Stefano Rodotà per il Colle al grido di "onestà... onestà!" e che adesso si ritrova indagato per "traffico d'influenze" e nel giugno prossimo andrà a processo a Livorno, imputato per i reati di violenza privata e lesioni personali ai danni di un giornalista da lui strapazzato nel settembre del 2020. Ancora più imbarazzante per il fronte giustizialista, se possibile, è un particolare che riguarda l'inchiesta milanese in cui Grillo è sospettato d'aver ottenuto dagli armatori di Moby alcuni contratti pubblicitari per il suo blog in cambio di aiuti politici offerti dal Movimento stanziato al governo: i pm non gli hanno sequestrato il cellulare, riservandogli di fatto un trattamento equivalente a quello dovuto ai parlamentari pentastellati in carica e tutelati perciò da precise garanzie costituzionali. Come a dire che verso Grillo non si usano soltanto i guanti bianchi indossabili, ma a discrezione, quando si tratta d'ingerire nella privacy; ma che lui è più uguale di ogni altro cittadino privato e anzi cittadino privato non è affatto, a dispetto della sua intermittente ritrosia a riconoscere il proprio ruolo pubblico. Un parlamentare di fatto seppur non di diritto. Come minimo è un'anomalia procedurale per la quale la blasonata Procura di Milano, quella di Mani pulite e delle inchieste seriali contro Silvio Berlusconi giocate (anche) sul filo dello sputtanamento del Caimano via intercettazioni e brogliacci diffusi a cielo aperto, si attirerà una miriade di retropensieri.

 

 

PECCATO ORIGINALE
Ma siamo sicuri che un tale trattamento nei confronti del comico più influente d'Italia non finisca per riverberarsi come un guizzo maligno contro i suoi seguaci? Tra il progetto originario di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e l'attuale silenzio rubizzo della nomenclatura grillina di fronte alle disavventure giudiziarie padronali, c'è di mezzo un palinsesto di proclami e provvedimenti intrisi di virtuismo moralizzatore, per non dire di cattive intenzioni da mozzorecchi, il cui precipitato materiale si è via via raggrumato nelle norme "spazzacorrotti" e nelle "riforme" dell'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Fra queste, appunto, il caliginoso e inafferrabile "traffico d'infulenze" (all'ingrosso: l'acquisizione di vantaggi materiali in cambio di presunti benefici amministrativi) che ora appesta vieppiù la già opaca reputazione del Garante. Ciò avviene proprio nel momento in cui la famiglia grillina è tutta compresa nella denuncia sgolata del rischio che il pregiudicato di Arcore varchi il soglio quirinalizio; proprio lui, il Cavaliere condannato per frode fiscale e inseguito dai togati per circa un quarto di secolo. Ecco, se c'è un aspetto di surreale comicità nella presente circostanza sta nel fatto che contestualmente Grillo si ritrova a personificare il peccato d'origine giacobina che si gli si ritorce contro con la faccia cattiva dei reati di cui viene accusato; ma in più, beneficato dalla malagrazia di quel telefonino risparmiato dall'occhio altrimenti inesorabile degli inquirenti, indossa pure la maschera di una casta superiore a quella ordinaria. Da una parte, cioè, giace esanime a trascorsa e futura memoria quella casta politica che negli ultimi decenni è stata regolarmente sputtanata e vilipesa grazie alle intime scoperte prodotte dai sequestri giudiziari e poi sapientemente distillate al circo mediatico; dall'altra c'è Beppe Grillo, con il suo cinico sodale Giuseppe Conte messo a guardia d'un flottante di parlamentari disponibili a tutto pur di rimanere aggrappati ai seggi in procinto d'essere ghigliottinati per legge (grilina anch' essa ça va sans dire).

 

 

TEATRO DELL'ASSURDO
Uno spettacoloso teatro dell'assurdo, insomma, che rende ancora più speciale il grande gioco per la successione di Sergio Mattarella, con le debite ricadute su Palazzo Chigi, e ancora più lancinante il rimpianto del bivacco di manipoli puristi che nel 2018 conquistò la stragrande maggioranza parlamentare, salvo poi chiudere la legislatura in odore del sospetto d'aver utilizzato quel potere per accrescere il patrimonio personale di un grassatore sempre innocente fino al terzo grado di giudizio soltanto per chi non fa parte della sua spersa masnada.

 

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