Antonio Di Pietro, 75 anni compiuti il 2 ottobre scorso, già segretario comunale, già commissario di Polizia, per non parlare di precedenti lavori modesti e precari, già magistrato, già fondatore di un partito, già ministro, ora avvocato e coltivatore diretto nella sua Montenero di Bisaccia, in Molise, sono andate sicuramente storte foto, titoli e vignette su Silvio Berlusconi padre naturale della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri.
Ma anche d’altro della riforma costituzionale della giustizia ora in attesa solo della conferma referendaria. Berlusconi sarà forse rimasto nella memoria di Di Pietro l’indagato e poi plurimputato che lui da sostituto procuratore della Repubblica a Milano propose al capo dell’ufficio Francesco Saverio Borrelli di “sfasciare” in un interrogatorio derivante da un avviso a comparire notificato a mezzo stampa all’allora presidente del Consiglio. Che peraltro solo qualche mese prima aveva offerto a lui e al collega Pier Camillo Davigo di entrare come ministri nel suo primo governo.
“Tonino”, come amici e titoli di giornali continuano a chiamarlo, sarà rimasto male, ma non tanto - almeno sinora - da cambiare idea sulla riforma della giustizia appena approvata dal Parlamento, che lui preferisce chiamare riforma dei magistrati. Di Pietro ha annunciato e ripetuto, anche al Fatto Quotidiano, che voterà a favore nel referendum confermativo. Ritenendo la separazione delle carriere giudiziarie conforme al processo di tipo accusatorio adottato un po’ meno di 40 anni fa, e una balla quintessenziale la paura avvertita dai suoi ex colleghi di vedere compromessa l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati garantite dall’articolo 104 della Costituzione, non toccato dalla riforma. Io aggiungerei anche il 112, brevissimo, e neppure esso toccato dalla riforma, sulla obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Anche a carriera separata da quella dei giudici introdotta dalla riforma.
La posizione di Di Pietro su carriere, ex colleghi e quant’altro toccato dalla riforma in attesa di conferma referendaria non mi ha meravigliato. Egli mi sembra tornato, dopo tanti anni in cui circostanze personali e professionali di vita, l’esposizione mediatica e altro ancora lo avevano in qualche modo travolto, alle origini. A quella volta in cui, per esempio, ospiti entrambi a pranzo, con Fedele Confalonieri, dell’architetto Claudio Dini, che ne sarebbe poi diventato imputato nella vicenda giudiziaria delle cosiddette mani pulite, ebbi istintiva simpatia per quel Di Pietro ruspante di poche e dirette parole, costretto a difendersi con un tovagliolo indossato come un impermeabile dagli schizzi di sugo che si procurava mangiando con foga gli spaghetti.
Riprovai simpatia per lui, ma a distanza, quando i colleghi della giudiziaria al Giorno, che dirigevo, mi anticiparono la notizia poi diffusa anche dalle agenzie del “sostituto” Di Pietro chiuso nel suo ufficio in Procura, a Milano, con un cartello appeso alla porta in cui si vantava di non partecipare ad uno sciopero indetto dall’associazione nazionale dei magistrati contro l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che mi chiamò al giornale per chiedermi se conoscessi quel «coraggioso e temerario magistrato». E io me ne vantai raccontandogli di quel pranzo da Dini.
Debbo dire che, anche a mani pulite aperte, Antonio Di Pietro seppe interrompere il mio stupore perla piega presa dalle indagini e dalla loro rappresentazione, quando in Piazza della Scala ci incrociammo per caso e lui, allontanati gli uomini della scorta, tenne a dirmi che le anticipazioni appena comparse sulle agenzie di un coinvolgimento di Bettino Craxi nella bufera giudiziaria non erano derivate dalle “carte” inviate dalla Procura alla Camera. E girate alla giunta delle autorizzazioni a procedere da una cui riunione ogni tanto usciva il verde Mauro Paissan per distribuire annunci e allusioni a carico del leader socialista.