Sconcerta leggere su un importante quotidiano che la riforma costituzionale sulla giustizia non va bene perché, con essa, un potere (quello esecutivo) propone di modificare l’assetto di un altro potere, quello giudiziario (Carlo Verdelli, Corriere della Sera, 10 novembre): ragionamento singolare, come se esistesse una sorta di immunità di quest’ultimo potere rispetto alle modifiche costituzionali... Se uno studente o studentessa del prim’anno esponesse consimile idea all’esame di diritto costituzionale, temo faticherebbe assai a superarlo. E prima di congedarlo/a, mi preoccuperei di ricordare a lui o a lei che la riforma sulla quale si andrà a referendum è stata approvata non da un maligno autocrate, ma dal potere competente, cioè dal Parlamento attraverso la procedura di revisione della Costituzione prevista dall’articolo 138 della Costituzione.
Bando all’accademia, però: qui si tratta di rendere comprensibile una materia obbiettivamente complessa, e di evitare che vengano diffuse sciocchezze o falsità. Per far questo, è meglio lasciar da parte complicati scenari di riequilibrio tra potere giudiziario e potere politico. Intendiamoci, il problema c’è: il fatto che il giudiziario, in tutte le più importanti democrazie liberali dell’occidente, abbia guadagnato spazi di intervento a scapito della rappresentanza politica democratica è sotto gli occhi di tutti. Ma questa riforma si occupa d’altro e non ha l’ambizione di regolare una simile questione, la quale ha caratteri culturali e strutturali che per essere modificati richiederebbero riflessioni e interventi di lungo respiro. La riforma sulla quale si voterà serve invece, qui e ora, a due cose importanti, che interessano tutti.
La prima: rendere i magistrati giudicanti (quelli che decidono le cause) più autonomi dai pubblici ministeri (quelli che fanno le indagini e richiedono ai giudici i provvedimenti). La differenza tra giudice e pm sfugge ai più, e questo non sorprende. Non è forse Gratteri (o chi per lui) spesso presentato come un “giudice”? Ebbene, non lo è: è un pubblico ministero, cioè colui che rappresenta l’accusa, dirige le indagini penali e formula le sue richieste al giudice.
Quest’ultimo è quello che davvero decide, dopo aver ascoltato sia il pubblico ministero, sia il difensore dell’accusato. Nel processo, il pm è solo una “parte”, esattamente come il difensore dell’imputato. E pm e difensore dovrebbero stare in una posizione paritaria (“parità delle armi”), con eguale dignità di fronte al giudice “terzo”, cioè non solo imparziale ma anche indipendente dall’uno e dall’altro. Ecco, qui sta la prima questione sulla quale i cittadini sono chiamati a votare.
Attualmente questa terzietà non è realmente assicurata, perché pm e giudice fanno parte della stessa organizzazione burocratica: sono reclutati con lo stesso concorso, hanno avuto la medesima formazione, sono amministrati dallo stesso Consiglio superiore. Insomma, giocano nella stessa squadra. Rispetto a ciò che accade nelle grandi democrazie occidentali, è questa un’anomalia che l’Italia condivide con pochi altri Paesi, e che la riforma intende eliminare. Altro che mettere il pm sotto le grinfie dell’esecutivo, come lamenta chi, in buona fede, non conosce la riforma, oppure, in malafede, racconta il falso. A scanso di ogni equivoco, per far amministrare la carriera dei pubblici ministeri la riforma appresta addirittura un Csm apposito - cioè, un organo slegato da ogni altro potere, in primo luogo dall’esecutivo - che ne assicurerà la completa autonomia. In definitiva, chi voterà Sì non vuole sottomettere i pubblici ministeri al potere politico, ma precostituire un contesto organizzativo che chiarisca come giudici e pm dipendono da due diverse amministrazioni.
E lo scopo finale è rendere, nei processi, ogni giudice ancora più autonomo e indipendente dalle prospettazioni (di parte! ) del pm, assicurando ai cittadini una giustizia migliore. Il secondo grande obbiettivo che la riforma intende perseguire è diminuire il potere delle correnti della magistratura, che fa sentire la propria non benefica influenza, all’interno del Csm (attualmente unico), in tutte le scelte relative alla carriera di un magistrato (valutazioni di professionalità, nomine a uffici direttivi ecc. ), premiando non già il merito ma l’appartenenza del singolo a un determinato schieramento correntizio. Questo obbiettivo è perseguito con un’arma radicale: il sorteggio dei componenti dei due Consigli superiori, quelli che dovranno rispettivamente amministrare le carriere, ormai separate, dei giudici e dei pubblici ministeri. Nessuno ne è entusiasta, meno di tutti l’Anm, che lo vede come il diavolo, perché comprende che finirebbe per perdere gran parte del suo potere. Molti magistrati sanno però che, se si è arrivati a questa soluzione, la colpa non è della politica “cattiva”, ma della stessa magistratura associata, che ha fatto pessimo uso dei grandi spazi di autonomia che la Costituzione le ha attribuito.
C’è chi dubita che il sorteggio serva all’efficienza della giustizia. Ma se due Csm meno lottizzati facessero, ad esempio, nomine migliori (e più veloci, non ritardate da sfibranti contrattazioni) ai posti di presidente di Tribunale o di capo di una Procura? E se quei due Csm, ancora, producessero valutazioni di professionalità più serie e non pilotate? Non sarebbero già due bei risultati per i cittadini utenti del servizio giustizia? Infine, chi si straccia le vesti sui due Csm sorteggiati, si chieda: se qualunque magistrato ha nel proprio bagaglio professionale la capacità di decidere dei beni, e talvolta della libertà, dei cittadini, non dovrebbe anche possedere le competenze per fare le valutazioni amministrative che competono a un membro del Csm?
*Vicepresidente emerito della Corte Costituzionale