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Pansa: Cicchitto è l'eroe di due sconfitte

Da Craxi negli anni Ottanta a Berlusconi: il deputato del Pdl rappresenta il tramonto del sogno socialista e della rivoluzione liberale di Forza Italia

Giulio Bucchi
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  A volte i politici scrivono libri che non servono a nulla. Tranne che a tessere l'elogio di chi li firma, e poi consentirgli di agguantare qualche comparsata nei talk show televisivi o di mettere in scena un comizio travestito da dibattito. Altri libri, invece, sono dettati dalla sofferenza dell'autore che, contro gli usi della Casta, descrive il proprio percorso all'interno del sistema partitico italiano. Un tragitto che può concludersi nel buio della sconfitta anziché nella luce della vittoria.  Ho letto così il nuovo saggio di Fabrizio Cicchitto: «La linea rossa. Da Gramsci a Bersani. L'anomalia della sinistra italiana». Lo pubblica Mondadori e sarà in libreria dal 10 luglio (pagine 417, euro 20). I lettori di Libero sanno chi è l'autore: 72 anni in ottobre, romano, capogruppo del Pdl alla Camera dei deputati, uno dei protagonisti di questo tramonto della Seconda repubblica. Sospetto che il titolo del Bestiario non gli piacerà. Ma dopo aver apprezzato il suo racconto, non ho trovato nessun'altra immagine che meglio riassuma il passato, il presente e il futuro di Cicchitto.  Per un certo aspetto anch'io sono uno sconfitto. Negli anni Settanta e Ottanta avevo seguito con interesse la battaglia politica di Bettino Craxi. In quell'epoca i quotidiani d'informazione erano meno schierati di oggi. Ciascuno di noi, a cominciare dai direttori per finire ai cronisti che seguivano i partiti italiani, fatalmente nutriva simpatie o antipatie per questo o quel leader. Rispetto alle consuetudini odierne, la differenza consisteva in un atteggiamento allora diffuso: si cercava di non farsi condizionare da un rapporto che poteva risalire anche a un tempo lontano. Craxi aveva un anno più di me e il nostro incontro avvenne quando entrambi eravamo studenti universitari, appartenenti a un gruppo laico e socialista, l'Unione goliardica italiana. Ricordo Bettino con tutti i capelli neri sulla capoccia, un ragazzo alto e magro, molto aggressivo. Portava i pantaloni alla zuava ed era già un lottatore, iscritto al Psi, ma di fatto un socialdemocratico integrale e all'europea.  Già allora il suo bersaglio polemico era il Pci di Palmiro Togliatti e poi di Luigi Longo. Il giovane Craxi riteneva nefasta la linea filosovietica dell'Elefante rosso. E pur sapendo di essere una pulce rispetto alla macchina del comunismo italiano, non sentiva complessi d'inferiorità e non esitava a scontrarsi con i compagni avversari, dapprima a Milano e poi a Roma. Bettino militava nella corrente dei socialisti autonomisti, al seguito di Pietro Nenni. E nessuno immaginava che da quel piccolo club sarebbe passato a guidare il terzo partito italiano.  Accadde tutto nell'estate del 1976, dopo l'ennesima sconfitta elettorale subita  dal Psi di Francesco De Martino. All'Hotel Midas di Roma, dove si era riunito il Comitato centrale del partito, Craxi riuscì a scalzare il vecchio segretario e divenne il leader del Psi. Quanto stava per accadere me lo spiegò il giurista  Federico Mancini, un signore bolognese di 49 anni, amico di Bettino.  Sul retro di un conto del Midas, un panino e una Coca cari come il fuoco, scrisse una filastrocca: «Noi compagni socialisti – siamo stanchi e un poco tristi. – De Martino questa estate – lo finiamo a fucilate. – Tutto quanto rinnoviamo: Benny Craxi ci mettiamo». Federico Mancini firmò la poesiola «Anonimo emiliano». Poi me la consegnò: «Tienila. Così ti ricorderai di queste giornate storiche».   Craxi vinse grazie anche ai voti della sinistra socialista. Il leader di questa corrente era il vecchio Riccardo Lombardi. Ma a guidarla c'erano dei giovani. Primo fra tutti, Claudio Signorile, che aveva accanto a sé, come membri della direzione, Gianni De Michelis e Fabrizio Cicchitto. Quest'ultimo aveva 36 anni, sei meno di Bettino che stava appena al di là della barriera dei quarant'anni.   Cominciò allora la grande illusione socialista. Craxi guidò il governo per due volte, dall'agosto 1983 al marzo 1987. Ma perse la battaglia ingaggiata per sottrarre voti al Pci, nella speranza di sospingerlo verso il territorio riformista. Si vissero anni roventi, di guerra politica senza freni. E anche di guerra interna al Psi. Fu allora che Cicchitto, scoprendosi isolato e senza difese, si iscrisse alla P2 di Licio Gelli. La considerava una loggia massonica potente, però non diversa dalle tante presenti in Italia. Ma quando uscì la lista degli iscritti, era il maggio 1981, si rese conto di aver fatto la cappellata della sua vita.  Tuttavia, quando parlo della prima sconfitta di Cicchitto, non penso a quella vicenda, molto personale e comune ad altri vip italiani. Penso alla fine delle speranze socialiste, una tragedia poi sfociata nel disastro di Tangentopoli. Il conto pagato dal Psi di Craxi fu altissimo. Identico a quello della Dc, entrambi condannati da un'inchiesta giudiziaria che vide un solo privilegiato: il Pci guidato da Achille Occhetto. Anche le Botteghe oscure avevano incassato mazzette a non finire. Però vennero graziate da un pool di magistrati che, nel disastro dei partiti italiani, volevano salvare la parrocchia dei post comunisti.  Cicchitto ritrovò la strada della politica alta schierandosi con Silvio Berlusconi, una scelta compiuta anche da altri socialisti. Ha fatto bene o male? Ecco la solita domanda che ci rivolgiamo sempre, pure su noi stessi. L'interrogativo non ha risposta, dal momento che, come diceva un filosofo, tutto il reale è razionale. E la storia di ciascuno di noi non deve mai iniziare con un «se». Che cosa sarebbe successo, se invece di fare una certa cosa ne avessi fatta un'altra… Confesso di provare simpatia per Cicchitto. Dal momento che ormai vivo lontano da Roma, non mi capita mai di incontrarlo. Ma la lettura della «Linea rossa» mi ha confermato quanto ho sempre pensato di lui. Ecco un politico che non ha la carriera come unico traguardo. E pur avendo passato la linea grigia dei settant'anni, va ancora alla ricerca di una strada che lo aiuti a mettere in pratica le proprie idee sulla società italiana. Anche a costo di incappare in un'altra sconfitta.  Oggi Cicchitto si trova di fronte alla fine del suo secondo partito dopo il Psi. La parrocchia del Cavaliere è andata a gambe all'aria. Dal seggio di capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio scorge soltanto rovine. Non ha smesso di combattere e anche la «Linea rossa» è la conferma di un carattere che, negli anni, è diventato tenace e cocciuto. Ma credo che anche lui abbia preso atto di un verità brutale: per il centrodestra le speranze di vincere sono davvero poche. Lo confermano anche i tratti di Cicchitto che i telegiornali ci restituiscono quasi ogni sera. Fabrizio non sorride mai. È il contrario del politico che ha scelto di fare il piacione. Quando lo vedo, penso che qualcosa stia bruciando dentro di lui. E ci conferma che la politica è anche sofferenza, inchiodata a una catena di ricordi che ti inseguono. Pur tentato da un'infinità di soluzioni che mutano di continuo, Berlusconi ha il colorito terreo del leader ormai finito. Di qui alla primavera del 2013, ammesso che le elezioni non si tengano prima, quanto resta del Pdl andrà incontro a una sciagura dopo l'altra. Cicchitto sarà il testimone di un'epoca politica conclusa. Mi auguro che stia tenendo un diario e annoti, giorno dopo giorno, quel che vede e ciò che prova. Sarà la base di un nuovo libro sorprendente. Fabrizio è uno dei pochi che può offrirlo a un pubblico ancora appassionato alle vicende di una piccola nazione come la nostra. di Giampaolo Pansa    

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