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Immigrazione e irrilevanza politica? Per contare in Europa l'Italia deve difendersi dalle minacce esterne

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Ursula Von der Leyen

Francesco Carella
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Mentre continuano a ritmo sostenuto gli sbarchi senza controlli sulle coste siciliane, caricando all'inverosimile i centri di accoglienza, i Paesi membri dell'Unione europea rispondono con assoluta indifferenza alle richieste di ridistribuzione avanzata dal presidente Draghi. Intanto, le navi turche minacciano nel Mar Mediterraneo i pescherecci italiani con la sfrontatezza di chi sa che nulla potrà mai accadere al di là delle blande parole di protesta da parte delle nostre autorità di governo. Si tratta di due eventi che rimandano, senza equivoci, ad un'imbarazzante verità: la considerazione dell'Italia sul piano internazionale è assai vicina allo zero. 

 

Si tratta sicuramente di uno dei lasciti del lungo letargo in cui il Paese ha vissuto negli anni della Guerra fredda. Una letargia durante la quale non era necessario attrezzarsi, e forse nemmeno opportuno, per realizzare un'efficace ed autonoma politica estera. La sicurezza italiana coincideva con l'intangibilità dei confini della parte Ovest dell'Europa ed era garantita militarmente dalle forze dell'Alleanza Atlantica. Ora che il panorama internazionale è in fase di radicale trasformazione - la Cina è sempre più impegnata in un progetto di "neocolonialismo economico", l'amministrazione americana è attenta più a ciò che accade sul versante del Pacifico che sul fronte della Vecchia Europa, il Medio Oriente si conferma instabile, la Turchia, nell'indifferenza dell'Unione, sta di fatto trasformando la Libia in un vero e proprio protettorato - l'Italia appare sempre più smarrita e inadatta ad affrontare le nuove sfide globali. 

Purtroppo, presso gran parte della nostra classe politica gode ancora di non poca credibilità l'idea secondo cui non si dà crisi fra Stati sovrani che non possa essere risolta facendo ricorso agli strumenti della diplomazia. Convinzioni sedimentate nel tempo a causa delle contingenze storiche legate, come si è detto, alla logica dei due Blocchi, ma anche in forza dell'egemonia politico-culturale esercitata dal Partito comunista che, considerando la guerra un prodotto del capitalismo, ha concorso con determinazione a delegittimare il diritto-dovere della democrazia italiana nel "potere usare le armi in casi estremi". 

 

La diffusione di un tale modo di pensare ha portato alla rimozione dal nostro orizzonte politico di uno dei princìpi fondamentali dello Stato di diritto, ovvero che «il cittadino in un sistema democratico è tenuto a rispettare le leggi a condizione che sia certo di ottenere dallo Stato adeguate contropartite, la principale delle quali è la disponibilità dello stesso ad usare la forza per proteggerlo dalle minacce esterne». In Italia ragionare in questi termini si rischia di passare, nel più benevolo dei casi, per pericolosi guerrafondai. La sensazione, soprattutto alla luce dei silenzi europei circa l'emergenza immigrazione, è che non ci possa essere futuro per il nostro Paese in assenza di una rivoluzione culturale da parte dell'intera classe dirigente che abbia come obiettivo un radicale cambio di registro sul terreno dei rapporti internazionali. 

In tal senso, occorrerebbe mandare a memoria, come se fosse un mantra, quanto scritto dai teorici del realismo, ovverosia che «la pace è il risultato di un costante equilibrio fra la sfera della politica e la sfera della forza nello spazio anarchico in cui si affrontano gli Stati». Ostinarsi a non volere considerare il mondo nella sua "realtà effettuale" equivale a consegnare l'Italia all'irrilevanza politica.

 

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